a cura di Lorenzo Pieri
“L’acqua ha le ossa sottili”. Così recita un vecchio adagio, che con efficace saggezza popolare descrive la pervasività di questo elemento naturale, salvifico, ma distruttore quando la forza della natura ha il sopravvento sulle opere degli uomini. Di giovani uomini e donne vogliamo parlare in queste righe, di ragazzi che nel 1966 diedero, anche a Cesena, un grande esempio di civiltà, tanto da meritarsi sui quotidiani di allora il felice appellativo di Angeli del fango.
Torniamo a quel 4 novembre 1966, quando Firenze fu sconvolta da una paurosa alluvione: l’Arno, a seguito di abbondantissime piogge, rompe gli argini, e l’acqua inizia la sua furiosa opera devastatrice. Si conteranno oltre una trentina di vittime, ma nella memoria collettiva, a distanza di cinquanta anni, rimangono soprattutto i danni ingenti subiti da preziosi capolavori d’arte.
Tra questi, innumerevoli libri, che si intridono di una infernale poltiglia maleodorante di fango misto a gasolio da riscaldamento, fuoriuscito dalle caldaie delle cantine alluvionate. Spesso sono testi antichi, manoscritti, testimonianze di storia, letteratura, filosofia, scienze e religione, che le mani pazienti di amanuensi hanno vergato nel silenzio di biblioteche e monasteri, per conservare, a beneficio di chi sarebbe venuto dopo di loro, il seme ed il frutto delle civiltà passate.
In questo contesto tragico, la coscienza di tutti gli italiani è scossa, si percepisce l’esigenza di porre rimedio, con ogni mezzo, a tanta rovina. Non racconteremo qui lo sforzo immane di chi a Firenze ed in Toscana ha contribuito ai soccorsi: vogliamo riandare brevemente con la memoria a quanto accadde a Cesena in quei giorni.
Sei anni prima era sorto, presso l’Abbazia del Monte, il Laboratorio di restauro del libro, su impulso di Dom Leandro Novelli e saggiamente guidato per lunghi anni da Dom Placido Zucàl; fu qui che approdarono circa 4.000 volumi provenienti dalla Biblioteca Nazionale di Firenze, trasportati da camion militari, e consegnati alla comunità monastica, allora certamente più numerosa di oggi.
Le immagini dei testi inzuppati e laceri, distesi nei corridoi e nei chiostri della Abbazia, anche oggi evocano l’idea di un ospedale militare, di un lazzaretto manzoniano in attesa di un diluvio, questa volta purificatore.
Il lavoro di lavaggio, asciugatura e restauro parve da subito spropositato, e fu allora che anche a Cesena tanti giovani studenti si offrirono di aiutare i monaci nell’impresa: con lo slancio ideale e l’energia di una età in cui ci si affaccia alla vita con entusiasmo, questi ragazzi vollero sporcarsi le mani nel senso letterale del termine, comprendendo il valore di quei testi, ciò che essi rappresentavano anche simbolicamente: un ponte di fragile carta tra un passato remotissimo ed un futuro al quale volgevano i loro occhi, un tesoro delicato e prezioso da proteggere.
Non era lavoro di poco conto: una volta lavate, le migliaia di pagine vennero asciugate ricorrendo anche all’aiuto della fornace Domeniconi e della carrozzeria Battistini, coinvolgendo ulteriormente la città in uno sforzo collettivo, per ridare vita ai preziosi scritti.
Quei ragazzi, la “meglio gioventù” di allora, hanno condiviso emozioni, fatica e allegria senza risparmiarsi: pare di vederli, paladini perfino inconsapevoli di una giusta causa, con le mani gelate dall’acqua dei rubinetti, intenti al lavaggio delle singole pagine, qualcuno perfino rumoreggiando, impudente e goliardico, sotto l’austero sguardo dei monaci.
Oggi vogliamo ringraziarli per quello che hanno fatto, per il loro entusiasmo, lo slancio gratuito, l’esempio di civismo che hanno dato alla città: l’acqua ha le ossa sottili, ma Cesena ha un cuore grande.