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Buona domenica care amiche e cari amici e buon anno scolastico 2020-21 a tutti gli insegnanti che domani riprenderanno un’attività didattica ancor più difficile e importante!  Ora che sono iniziati gli eventi per celebrare i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri (Ravenna, 1321), è il caso di esaminare la terzina della Divina Commedia in cui il Poeta parla della nostra città:

Inferno, canto XXVII°: Dante e Virgilio stanno scendendo verso il fondo della buia e terribile voragine in cui viene eternamente punita la “perduta gente” e si trovano nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio (Malebolge) dove sono avvolti da lingue di fuoco (legge del contrappasso), i consiglieri fraudolenti.

Si è appena spento l’eco delle parole di Ulisse (“infin che il mar fu sopra noi richiuso”) che ha ricordato l’ultimo, fatale viaggio verso mondi mai esplorati, allorchè viene incontro ai due pellegrini un’altra lingua di fuoco che si rivolge a Virgilio, riconoscendolo come “latino” (gli Italiani erano di là da venire) e chiede se i “Romagnuoli han pace o guerra”.

Chi parla è Guido da Montefeltro (allora il Montefeltro era Romagna), importante personaggio politico, per alcuni anni capo dei ghibellini di Romagna, capitano del popolo di Forlì e Faenza, signore di Ravenna, vincitore della battaglia di Forlì contro le truppe francesi che aveva sterminato facendone “sanguinoso mucchio”.

Al termine di una vita intensamente vissuta come avversario del papa, il 17 novembre 1296 era entrato nell’ordine francescano e ad Assisi aveva vissuto gli ultimi anni fino alla morte. Perché un francescano all’Inferno? Perché avrebbe fornito al papa Bonifacio VIII° (uomo senza scrupoli che Dante collocherà nell’Inferno) un consiglio fraudolento per conquistare con l’inganno la rocca di Palestrina dove erano asserragliati i suoi avversari Colonna.

Come in genere le anime che Dante incontra nell’Inferno, anche Guido è ancora legato alla vita terrena e questo è uno degli aspetti che rendono così suggestiva la prima Cantica della Commedia.

Alla domanda di Guido non risponde Virgilio che, invece, sollecita Dante: “Parla tu: questi è latino”.

E Dante prontamente risponde: “O anima che se’ là giù nascosta,/ Romagna tua non è, e non fu mai,/ sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni/ ma ‘n palese nessuna or vi lasciai”.

Dopo questa premessa, Dante inizia una panoramica sulla situazione delle principali città della Romagna fino ad arrivare ai versi 52-54 dedicati a Cesena:

“E quella cu’ il Savio bagna il fianco,

così com’ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte

tra tirannia si vive e stato franco”.

Dante non nomina Cesena ma la identifica chiaramente, innanzi tutto dall’essere costeggiata dal fiume Savio che, tuttavia, a voler essere precisi, non bagna il fianco quanto piuttosto il capo.

E, infatti, oltre due secoli dopo, l’ignoto Autore del poema in volgare locale “Pulon Matt” contesterà proprio questo a Dante:

“Dant,ch’è sì dott (istruito), cantend’ una matina

Diss, quella cu’ u Seuij (il Savio) bagna el fianch,

Suj (Se) bagna i cheu (capi), chi scusa (scusate), biecch (becchi) e branch (branche).”

Tuttavia, oltre alla eventuale “licenza poetica”, c’è da osservare che, ai tempi di Dante, la conformazione della città non aveva ancora assunto la caratteristica forma dello scorpione, raggiunta in età successiva.

Nella terzina (ora riportata in una lapide sull’alto muro della Rocca prospiciente Piazza del Popolo) Dante indica la posizione della città tra piano e monte, ai suoi tempi ancora più evidente in quanto la città era ancora poco estesa in pianura mente assumeva ancora una notevole rilevanza la Rocca Vecchia e l’agglomerato urbano sul monte Garampo.

Per fare un esempio, la Cattedrale era ancora nella Murata e sarà spostata al piano, dove ancora si trova, in età malatestiana (fine secolo XV°).

Infine, l’annotazione politica che a Guido (e probabilmente anche allo stesso Dante) stava più a cuore: la condizione di Cesena “tra tirannia e stato franco”, una situazione diversa dalle altre città in generale dominate da signori locali: Ravenna da Guido Da Polenta, Forlì da Scarpetta Ordelaffi, Rimini dai Malatesta, Faenza e Imola da Maghinardo Pagani da Susinana.

Qual era, dunque, la situazione della nostra città in quell’anno 1300 in cui Dante immagina di fare il viaggio dalla “selva oscura” fino all’Empireo?

 

Cesena era di fatto governata da Galasso da Montefeltro, cugino di Guido e, come lui, esponente di primo piano del “partito” ghibellino.

Roberto Casalini nella sua “Storia di Cesena” (Soc.Editr. “Il Ponte Vecchio” Cesena 2013) definisce Galasso “una delle figure maggiori della storia cesenate…titolare di una vera e propria signoria (1295-1300).”

Certamente dotato di notevole acume politico oltre che di abilità nel comando militare, Galasso governò Cesena riunendo in sé le cariche di capitano del popolo e di podestà, dimostrazione di consenso da parte delle varie classi sociali della città, un consenso che gli consentiva di forzare le regole che volevano quelle cariche solo annuali.

Dante aveva un’alta considerazione di Galasso, additandolo (nella sua opera “Convivio”) come esempio di liberalità, onestà e distacco dalle ricchezze iniquamente accumulate.

Durante i cinque anni del suo governo – scrive lo storico Gino Franceschini che ha studiato a fondo la casata dei Montefeltro – “Cesena fu una capitale cortese, sede di gentilezza e liberalità”.

Il castello originario della famiglia (il cui stemma era a bande trasversali gialle e azzurre) si trovava a Secchiano, nella valle del Marecchia, dove ora rimane un piccolo resto.

E proprio in quella zona Galasso fu protagonista, il 30 maggio dell’anno 1297, dunque mentre era al governo di Cesena, di un evento truce che contrasta con la cortesia di cui scriveva Dante: la presa del castello nemico di Piega e l’uccisione di vari membri della famiglia guelfa degli Olivieri, alcuni dei quali vennero terribilmente trafitti con pali appuntiti.

Il fatto è riportato negli “Annali Cesenati”: “Millesimo CCXCVIII die XXIX mensis Madii. Comes Galassus de Seclano cum Cesenatibus et suis amicis de Monte Feltro, obsedit Castrum Plege et vi accebit illud Bartholinum et Aulivarium filium ejus turpissima morte, scilicet affixos in palo, fecit perire; et Tinacium, qui erat de ipsa Domo, et multos alios gladio fecit interimi, qui ipsius Galassii Comitis erant capitales inimici”.

A Novafeltria si è tenuto, due anni fa, un convegno proprio su questo evento.

La punizione fu, forse, una ritorsione per l’uccisione dei parenti di Galasso in una precedente strage.

L’impalamento era una delle più dolorose modalità di dare la morte, diffusa in quei tempi terribili, praticata ampiamente da quel Vlad III° Dracula, principe di Valacchia (1431 – 1477), fonte di ispirazione per Bram Stoker nella creazione del vampiro conte Dracula.

Evidentemente i tempi erano tali e la figura di Galasso non ne fu sminuita presso i contemporanei.

Del resto le vicende di Cesena sono ricche di figure ed episodi “a luci e ombre” e questo rende affascinante la storia della nostra città che, forse non a caso, ha nel proprio stemma i colori che più tra loro contrappongono: il Nero e il Bianco.

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1 Commento

  1. alessandro 20 Marzo 2022

    Grazie, sito davvero utile e interessante per una ricerca e un approfondimento su Cesena!

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