Nel 1780, Cesena fu teatro di una storia d’amore travagliata, tra un giovane della classe nobile, il marchese Giacomo Guidi, ed una bellissima popolana, Teresa Baratti. Il cronista sacerdote Carlo Antonio Andreini (1746-1817) in un manoscritto sulle memorie della città ci tramanda questa vicenda che provocò enorme scalpore non solo in città ma in tutto lo Stato Pontificio.
Il giornale storico “Lo Specchio” il 26 settembre del 1880 riprende l’episodio con un suggestivo racconto che vi riproponiamo.
La scansione integrale dello Specchio è disponibile QUI
E’ possibile anche ascoltare la storia dalla voce di Lorenzo Pieri, cliccando sotto.
Un amore cesenate nel secolo XVIII
Sedeva sopra il soglio pontificio il nostro concittadino Pio VI. In Cesena si poteva dire stabilita una piccola succursale della Corte romana. Principi, duchi, ecclesiastici, insigniti d’alte cariche, passavano molto frequentemente, per visitare la famiglia del Papa. Ogni tanto, la nostra comunità doveva fare, come allora si diceva, le allegrezze per qualche Cesenate elevato alla dignità della porpora. Ogni tanto, arrivavano qui dei cardinali, dei vescovi, incontrati dal pubblico Magistrato, salutati da sparo di mortari e da suono di campane, e vi ufficiavano religiosamente e vi banchettavano con sontuosità.
Ma s’ingannerebbe chi credesse che fossero tempi felici. Gran parte delle ricchezze del paese erano assorbite da un numero sterminato – da un’intera popolazione – di frati e di monache di tutti gli ordini e di tutti i colori; lauti benefici alimentavano un clero secolare assai numeroso; e i nobili non sapevano, per lo più, esercitare la beneficenza, che lasciando i loro averi ai conventi e alle chiese. Il popolo era condotto dal bisogno all’avvilimento; molti dovevano rosicchiare gli avanzi delle mense fratesche; tutti quanti erano tirati su nella più crassa ignoranza e nella più abbietta superstizione. I nobili avevano la soddisfazione di vani titoli e di privilegi odiosi o puerili, ma, in fondo, erano anch’essi soggetti alla disciplina del prete, il quale penetrava dentro le loro case e pretendeva regolarne fino le più delicate faccende. E quando alcuno osava ribellarsi a una tale tirannia, allora il prete non si valeva dei soli mezzi morali per sottometterlo, ma ricorreva alla forza materiale e puniva ferocemente.
Gli esempi, che se ne potrebbero addurre, sono molti; ma a me basta di ricordarne uno solo, raccontando la seguente storia d’amore.
La famiglia era all’apice della sua gloria. Onorata del favore del Re di Sardegna, che l’aveva innalzata al marchesato, lieta d’aver visto uno dei propri membri eletto cardinale e potente alla Corte di Roma, essa poteva ripromettersi anche più prosperi destini, e sperar di stringere illustri parentadi.
Faceva parte di questa famiglia il giovine Giacomo. Sia che egli avesse voluto intraprendere la carriera militare o l’ecclesiastica, sia che avesse voluto ammogliarsi, non gli sarebbero mancate occasioni di aumentare il decoro della sua casa. E già i parenti, e, più di tutti, il cardinale, andavano formando, in proposito, mille progetti, mille disegni, uno più bello e ambizioso dell’altro. Ma intanto Giacomo, libero ancora la mente e il cuore da ogni preoccupazione, non credeva di contrariar i sogni di nessuno, e si limitava a non impegnarsi con promesse formali.
Egli era un giovine di buon umore, amante degli spassi e dell’allegria. Gli piaceva anche di correre dietro alle belle ragazze e specialmente a quelle del popolo, perché con esse poteva lasciar da parte il noioso cerimoniale di società; e le sue conquiste non erano poche. I suoi amori però duravano breve tempo E mutavano spesso; cosa che faceva molto piacere a suoi parenti, i quali da quella volubilità erano assicurati contro ogni serio pericolo. Ma non fu sempre così.
Un giorno, si celebrava in una vicina campagna, la festa del santo della parrocchia. Il curato aveva disposto ogni cosa per farsi onore. La Chiesa sorgeva modesta in fondo a un bel viale, ombreggiato da due lunghe file di olmi. Fra una pianta e l’altra, stavano sospesi a una funicella lampioncini colorati; due vecchietti, appoggiati al muro della chiesa, sonavano il violino, e fanciulle e giovinotti ballavano i più arditi saltarelli e le più pazze monferrine di questo mondo. Intorno a loro stavano altri giovani; stavano alcuni vecchi, uomini e donne, disposti in un gran circolo, gridando, ridendo e guardando con occhi lucidi, brillanti, che formavano tutti insieme come una corona di gemme.
Più in giù, s’affollavano in un altro circolo più piccolo bambine e bambini, e ridevano, e saltavano e si rincorrevano e facevano mille giochi.
Tra quei giovani cittadini v’era pure il nostro Giacomo, col suo solito buon umore. Aveva egli visto una bella bruna, con certi occhi neri, che preannunziavano col loro riso quello delle labbra, e con certi capelli lucidissimi, su cui le variazioni del chiaro e dell’oscuro lasciavano come una traccia di ombre. Giacomo le si era subito accostato, e s’era accorto dal mover degli occhi di lei e da una mal repressa irrequietudine di tutta la persona, che essa desiderava di lanciarsi nel ballo. Anche lui si sentiva una voglia matta di fare altrettanto, sicché le si offrì per compagno. Essa rimase alquanto confusa e perplessa: ma alfine accettò.
Andavano ora i due giovani stretti insieme, vorticosamente e, al pari dei loro corpi, andavano i loro pensieri. Sentivano a vicenda i loro cuori battere a tumulto: alle labbra di lui salivano rotte parole, le quali avevano per lei un maggior significato, che interi discorsi. Essa non rispondeva, ma chinava il volto arrossendo. E intanto le note partivano sempre più giulive dai violini dei due vecchietti; il cielo era sereno, il sole sfolgorante, e il ballo continuava sempre più allegro e vorticoso.
La fanciulla, che ballava col giovane Giacomo, era di Cesena e si chiamava Teresa. Suo padre era un pover’uomo, che dava asini a nolo; ed essa, per quell’uso, tanto antico e comune tra il popolo, di denominare i figli dal mestiere, era chiamata da tutti la Teresa dell’asinaro. L’appellativo è molto prosaico, e piacerà certamente alle mie gentili lettrici; ma pensino queste che io narro una storia vera, e che non mi è concesso inventare nulla…nemmeno gli appellativi.
Dal giorno della festa descritta, cominciò tra Giacomo e Teresa una relazione, che, a poco a poco, divenne sempre più intima, fino a meritare il nome d’amore. Si vedevano molto spesso, in luoghi reconditi; si parlavano con effusione; si facevano mille promesse. Da principio, Giacomo s’era posto nella sua nuova avventura alla leggera, come nelle precedenti. Ma Teresa era una fanciulla così appassionata, aveva tali maniere per mostrare la sua devozione, intera, fiduciosa, cieca, per lui, che egli si sentì condotto ad amarla d’un affetto più vivo e più vero di quanti ne aveva fino allora approvati.
Come fu bello il primo tempo della loro felicità! Spesso i due giovani amavano andare insieme per la campagna, e, là, soli, spensierati, in mezzo all’azzurro sereno dei cieli e alla fresca verdura dei prati, nascevano ilari amori, come allegri uccelletti.
Ben presto vennero giorni più gravi. Nessuno di loro poteva ricordarsi per l’appunto come fosse accaduto: fu un momento di febbre, di delirio, che vinse la loro volontà. Ma, una sera, essa dovette confessargli, arrossendo, che una terza vita stava per unire le loro due, anche più strettamente di prima.
Allora parve che Giacomo si destasse da un bel sogno. Nessuna delle sue relazioni amorose aveva portate tante serie conseguenze; ora egli pensava di proposito a ciò che convenisse di fare. L’educazione avuta da sua madre; la religione stessa con quei precetti, che per tanti altri erano vuote frasi, e per lui suonavano come imperiosi comandi; l’amore cresciuto, quasi a sua insaputa, gigante; tutto gl’imponeva di non abbandonare la giovine, che si era consacrata interamente a lui.
Ma, nello stesso tempo, gli si affacciavano al pensiero le opposizioni, le ire della propria famiglia; vedeva quanta sarebbe stata la rabbia del Cardinale, se egli lo avesse deluso nella sua ambizione; quanti mezzi avrebbe usati il potente sacerdote per impedirgli di farlo, o per vendicarsene, quando egli l’avesse fatto.
La lotta che Giacomo dovette sostenere seco stesso fu dura, ma breve. Egli amava veracemente (come abbiamo già detto) per la prima volta, e il suo amore gli dava tutto il coraggio di vincere qualunque ostacolo, pur di compiere il proprio dovere. Onde tutte le volte che la giovine gli si gettava tra le braccia, piangendo, e gli confidava tutti i suoi timori, le sue ansie d’essere abbandonata, egli l’assicurava e le giurava, non semplicemente per consolarla, ma con la più seria intenzione, che l’avrebbe fatta sua sposa.
Da prima i parenti di Giacomo non mostrarono nemmeno d’accorgersi della nuova conquista che egli aveva fatta, e credettero si trattasse d’una delle solite avventure di brevissima durata. Ma poi, vedendo che la relazione con Teresa continuava, e quando ebbero conosciuto bene lo stato critico della fanciulla e i propositi del suo innamorato, si dettero ad attraversarli con tutte le forze.
Seguendo l’opinione quasi generale dei nobili e dei ricchi del loro secolo, si persuasero facilmente che un po’ di danaro potesse aggiustare ogni cosa. Chiamarono dunque la Teresa, e le fecero prima una quantità di rimproveri e di minacce, poi le offrirono d’assicurare i mezzi di sussistenza a lei e al suo figlio; in fine (poiché essa resisteva ancora) scesero alle preghiere, le dissero che, se ella amava davvero Giacomo, non doveva impedire che egli potesse giungere a più alti destini, non doveva essere la causa del suo avvilimento; e tanto seppero fare che la poveretta promise, giurò tutto quello che essi vollero e partì lasciandoli pienamente soddisfatti.
Ma, quando essa si trovò ancora col suo Giacomo, ebbe un bel cercare di persuaderlo, ebbe un bel rammentargli l’obbligo che essa aveva assunto! Le sue parole non fecero che accrescere la stima e l’amore del giovane, e renderlo sempre più risoluto a compiere il matrimonio.
Allora gli insigni marchesi, vedendo che la faccenda non si risolveva, fecero un ultimo tentativo, chiamando al loro cospetto lo stesso Giacomo, e l’esortarono, in nome del loro decoro e del loro grado, a deporre i falsi pensieri che aveva concepiti, lo pregarono nella maniera più toccante, lo minacciarono pure; ma fu tutto vano.
Di fronte a tale risolutezza, pensarono di valersi d’altri mezzi. Informarono del fatto il cardinale, non tacendogli alcuna minima circostanza, mostrandogli quanto fosse il timore in cui vivevano e la serietà del pericolo che li minacciava. Il cardinale rispose prontamente, ringraziandoli della loro premura, approvando interamente il loro contegno, e dichiarando d’assumere sopra di sé la cura di mandare a vuoto un progetto tanto dannoso quanto ridicolo. Soltanto egli voleva essere tenuto, con esattezza, al corrente d’ogni cosa, e quando ebbero ragione di credere abbastanza prossimo l’evento così tenuto, gli mandarono sollecita notizia.
Una notte, all’improvviso, arrivò nella nostra città una schiera di sbirri, provenienti da Ravenna e guidati dall’Auditore in persona. Vennero cauti su per la via che ora à nome Masini, e giunti alla piazzetta del Duomo, ora della Concordia, bussarono a un’umile casa, domandando se lì si trovava la Teresa. Per buona ventura, avevano sbagliato; v’abitava, invece, una sua amica, la quale poté correre a tempo da lei e avvisarla del pericolo.
La Teresa si levò prestamente dal letto, dove riposava da alcune ore, e vestitasi alla meglio, corse a ricoverarsi nel convento delle cappuccine. E quando li, avuto l’esatto indirizzo della casa di lei, andarono per farla prigioniera, non trovarono la preda sperata.
Intanto la notizia dell’accaduto giunse all’orecchio di Giacomo. L’ira e il furore l’invasero, non c’era tempo da perdere e bisognava, con un fatto compiuto, tagliar la via alle insidie e alle prepotenze altrui. Per questo andò subito al convento delle cappuccine, e là trovò la sua Teresa, tutta ancora spaventata e tremante, più ancora per lui, temendolo ricercato dagli sbirri, che per sé medesima. Quando lo vide, gli disse che aveva compreso fino a qual punto i marchesi fossero decisi d’impedire il loro matrimonio, che prevedeva i danni che egli ne avrebbe sofferti, e che pregava d’abbandonarla alla propria fortuna. Quella mite sottomissione non fece che vieppiù accendere l’animo del giovine, il quale, resistendo a tutte le preghiere e alle lacrime di lei, la persuase a seguirlo fuori del convento fino alla prossima parrocchia della Casa di Dio.
Là, davanti al curato, colto quando meno se l’aspettava, e a due testimoni trovati lì per lì, egli la proclamò solennemente sua moglie. Compiuto questo grande atto, pensò di preparare i mezzi alla fuga. Ma qui stava appunto il difficile.
Proprio sul punto, in cui i due novelli sposi lasciarono la casa del curato, gli sbirri s’imbatterono con essi; le guardie del governatore li ravvisarono, e subito sposi e testimoni si videro circondati e fatti prigionieri. Il marchese protestò altamente, dichiarò che la donna che aveva seco era sua moglie; ma fu tutto inutile: convenne rassegnarsi. Condotti alla presenza del governatore, questi disse loro d’aver ricevuto ordine, poiché non era più possibile impedire l’indecoroso matrimonio, mandare il marchese a Forte Urbano e far chiudere la moglie di lui nel convento delle Convertite, per tutto quel tempo che piacerebbe alla superiore autorità. A Giacomo non restò più che a confortare la sposa piangente, a dirle che infine la loro unione era santa e indissolubile, che, dopo qualche tempo di prova, sarebbero ritornati l’uno all’altro, e che, quando pure gli uomini malvagi li avessero voluti disgiunti per sempre, giovasse a lei almeno la consolazione che il figliuol suo non avrebbe, nascendo, portato con sé l’obbrobrioso nome di bastardo.
Ma le vendette della superiore autorità, come la chiamava il buon governatore, non finirono qui. Anche i testimoni, presi insieme coi due giovani, furono trattenuti in carcere, e, dopo alcuni giorni, venne l’ordine di imprigionare il prete che, senza volerlo, aveva dovuto dar valore giuridico al matrimonio, e il padre e le sorelle della Teresa, non colpevoli d’altro che d’essere congiunti di lei.
Chi lo ordinava era, come ben potete immaginarvi, l’eminentissimo signor cardinale. L’illustre porporato era furente di rabbia per aver visto cadere in rovina il più bell’edifizio che egli avesse eretto nella sua mente. Restava lunghe ore seduto sopra un seggiolone, come intorpidito, e pensava e pensava. Ma bisognava pur confessarlo a se stesso: quella chiesa, che aveva fino allora soddisfatte le sue mire ambiziose, non gli dava ancora alcun espediente per rompere quel maledetto matrimonio. Ed egli sorgeva in piedi, ad un tratto, e si dava a percorrere furiosamente, in lungo e in largo, le sale del proprio palazzo, imprecando contro tutti. In breve, egli ammalò d’itterizia; e la malattia fu così grave, che i medici lo dettero subito per disperato. Dopo 29 giorni, il cardinale era morto.
Per i due sposi fu una vera fortuna. La famiglia , non ebbe la forza d’incrudelire ancora contro il povero Giacomo; e l’autorità ecclesiastica stessa, non avendo chi la spingesse alla severità, credette di mostrarsi più mite. Primo ad esser liberato fu il parroco; poi vennero i testimoni e i parenti della Teresa; infine i due sposi, ai quali però fu proibito d’abitare in Cesena e ingiunto d’andare a por dimora in un piccolo paese di montagna, poco lontano.
Là finalmente essi trovarono quella felicità che il mondo aveva loro tanto contrastata; là furono rallegrati dall’affetto d’una prole numerosa e da tutte le gioie più care e desiderate della famiglia. Non serbarono rancore a nessuno, non invidiavano i chiassi e le pompe (che allora c’erano d’avvero!) della città, che avevano dovuto abbandonare per sempre. L’amore santificava il piccolo cantuccio di terra dove vivevano, essi bastavano a se stessi e non avevano più nulla da chiedere, nulla da sperare, nulla da temere.
Storia alla fine conclusa comunque quasi bene! ho sottomano un volumetto stampato nel 1777 intitolato “Lettere interessanti del pontefice Clemente XIV Ganganelli….” e da questi scritti copio qualche consiglio che il Ganganelli (non ancora papa ) dava ad un uomo in procinto di sposarsi . a) nel caso avesse compromesso una donna :” Vi consiglio d’assegnare una pensione vitalizia alla persona da voi sedotta, acciocchè la miseria non la costringa a continuare una vita sregolata; a condizione pero’ che essa se ne vada lontan da voi.Queste vostre intenzioni le manifesterete alla medesima per iscritto, domandandole perdono d’averla subornata, e persuadendola a scordarsi delle creature, rivolgendo l’amor suo verso del creatore” b) e riguardo al matrimonio diceva : ” per uno stabilimento che deve durare per tutta quanta la vita , si deve consultare piu’ la Religione e la Ragione che il genio e l’inclinazione. Rare volte si vedon riuscir bene què matrimoni che altro motivo non hanno avuto che l’amore egli opera maraviglie nelle poesie ; e nè romanzi , ma in pratica poi non val nulla ” . Correva l’anno 1750
Meravigliosi consigli Lelio! 🙂
Storia scritta con una lingua meravigliosa, quasi manzoniana. Grazie per il bel racconto
non erano infrequenti relazioni sentimentali fra nobili e popolane. Nel 1845 a Cesena nacque un bimbo dalla relazione tra un nobile Chiaramonti celibe ed una vedova popolana. Il bimbo venne pero’ portato allo Ospizio degli Esposti della citta’ e gli venne dato nome Venturi Filippo Giacinto. La relazione tra i due prosegui’ ugualmente ed il nobile diede una piccola pensione ed in seguito un podere al Venturi (nome dell’ospedale). In seguito il Chiaramonti sposo’ una nobile ed ebbe figli. Mori’ poi prematuramente nel 1867 ed il Venturi penso’ allora di farsi riconoscere e di concorrere alla eredita’ assieme ai figli legittimi del Chiaramonti. Purtroppo per lui la sentenza del Tribunale di Forli’ nell’anno 1872 fu sfavorevole.Patrimonio e buon nome della famiglia erano salvi.