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Care amiche e cari amici, oggi faccio un’eccezione alla regola di questa Rubrica dedicata a Cesena per ricordare un campione che, del resto, è ancora nella memoria di tutti noi: Marco Pantani di cui fra sette giorni ricorre il 17° anniversario della tragica, improvvisa e ancora misteriosa morte, annunciata con grande rilievo dai telegiornali della sera di sabato 14 febbraio 2004. Intendo farlo con uno dei miei “Racconti del porto canale” (rivisitato e aggiornato), un libro pubblicato quasi dieci anni fa:  

                                                                                     

Da alcuni anni, ogni 14 febbraio, per un misterioso prodigio, un’ampia folata di vento attraversa le strade di Cesenatico.

Il passante che, camminando per uno dei viali che portano al mare, avverte all’improvviso un brivido di freddo e vede sollevarsi un turbine di polvere mista alle foglie cadute dagli alti platani, non può immaginare l’origine di quel vento.

Quel vento non è intriso di umida salsedine e non viene dal mare, è un vento secco, che ha un sentore di neve ed ha percorso centinaia di chilometri prima di arrivare a Cesenatico.

E’ sceso dai monti che hanno assistito alle imprese di Marco Pantani, dal passo del Galibier, dal Mortirolo, dal Pordoi che non hanno dimenticato che, proprio in questo giorno dedicato all’amore, il campione è finito tragicamente fuori strada, ha forato per sempre la sua vita.

Ogni anno, quel vento porta a Marco la carezza delle montagne.

Come per uno strano caso o un anomalo destino, lui, nato in riva al mare, era diventato il più forte scalatore, irresistibile quando partiva con la sua andatura potente e agile.

Tutta la sua vita era stata un’entusiasmante salita e una forsennata discesa.

La sorte gli aveva concesso il dono di correre più veloce di tutti, poi si era accanita contro di lui con un cinismo che avrebbe schiantato un ciclista meno forte e tenace. Pantani era stato vittima dei più disparati incidenti: un’auto nel senso vietato di marcia, un’altra che non aveva rispettato il segnale di fermata, una chiazza d’olio sulla strada, un anziano che aveva invaso la corsia, una caduta di altri ciclisti che lo avevano travolto, un sasso precipitato da una roccia, un gatto che gli aveva tagliato la strada… C’era una specie di perverso accanimento in questa inesauribile sequenza di incidenti sempre diversi che avrebbero stroncato la capacità di reazione di chiunque. Lui invece non si era perso d’animo, era sempre ripartito, era tornato ad essere il più veloce. La sua forza aveva conquistato ammirazione e simpatia. Anche invidia.

 

Ed era arrivata la più terribile delle sconfitte. L’avevano fermato, ad un passo da un’altra straordinaria vittoria, non la sfortuna nè un avversario più forte ma i risultati di un controllo che lui (e ad altri) erano sembrati truccati.

Un ostacolo a cui era impreparato e che aveva vissuto come una congiura, un’intollerabile ingiustizia. Da quel colpo non si era ripreso ed era iniziato il declino, la discesa senza freni nell’autodistruzione. Si era sentito vittima di un sistema che l’aveva esaltato e poi emarginato, delle tante procure che avevano avviato indagini su di lui come un criminale, dei giornalisti che sminuivano il valore delle sue vittorie e dei falsi amici che gli erano stati vicino per interesse, pronti a lasciarlo nel momento di difficoltà. Non aveva retto all’amarezza.  La forza di lottare era venuta meno, si era esaurita la capacità di superare ogni ostacolo con la forza dei muscoli e la passione del cuore.  Si, qualche altra vittoria c’era stata ma lui non era più lo stesso, qualcosa dentro si era spezzata e non aveva più trovato la forza per alzarsi sui pedali come solo lui sapeva fare, con il corpo che ondeggiava sulla bici come al ritmo cadenzato di una danza. Era precipitato in una disperazione sempre più cupa.

Il 14 febbraio 2004, l’ultima discesa verso l’abisso.

Ma i monti che hanno visto le sue imprese lo amano ancora come lui, che veniva dal mare, aveva imparato ad amare le salite, a scattare al momento giusto per arrivare primo in cima e buttarsi veloce lungo la discesa, fino al traguardo.  Le montagne hanno amato la smorfia del suo volto durante la fatica, l’espressione di gioia nella vittoria e l’inquietudine di chi non è mai appagato, come se la vita fosse una continua lotta per superare nuove sfide, andare oltre il limite, gettare il cuore sempre più lontano. Hanno amato la sua forza nel rialzarsi dopo una caduta, la spavalderia della bandana da pirata e le orecchie a sventola, le braccia levate al cielo dopo il traguardo e gli occhi in cui felicità e malinconia s’alternavano come sul volto di un bambino dal sorriso timido.

 

Quei monti, ogni anno, chiedono al vento di portare una carezza alla tomba del campione, nel giorno dell’amore e della sua morte. Il vento attraversa l’immensa pianura, sorvola i colli dove Marco ha imparato a pedalare, arriva nell’antico borgo marinaro e, subito, corre a sfiorare il suo volto sorridente dipinto sulla parete di un albergo di Valverde, poi vola ad abbracciare la statua che è nel giardino di fronte al mare, la statua del campione ritto sui pedali, fissato in uno dei suoi scatti irresistibili, sul piedistallo di pietra rossa che simula la montagna. La folata di vento avvolge la statua, sfiora il viso, gli porta il ricordo delle strade di montagna, degli strappi in salita, dei tifosi che applaudono ai lati, che urlano “Vai Marco!”. Prosegue poi la corsa lungo il largo viale che va verso il porto e arriva alle sponde del canale. Quelle rive erano state la prima pista di Marco bambino. Le aveva percorse sulla piccola bicicletta, quando abitava lì vicino, nella casa dei nonni e, forse, proprio sulle sponde del porto canale, volgendo lo sguardo all’orizzonte e all’immensa distesa del mare, aveva imparato a guardare lontano, a sognare l’impossibile. Il vento sfiora l’acqua del canale, gira intorno alle barche, si insinua nei vicoli, tra le basse case del borgo. Entra, facendosi più lieve, nel piccolo museo stipato di manifesti, maglie colorate, biciclette e trofei, in quell’ambiente che raccoglie le memorie dei trionfi del campione. Infine, quando le ombre della sera scendono ampie dagli Appennini e invitano al raccoglimento, quando s’avvicina l’ora in cui, anni prima, l’anima del campione era volata via, in quell’ora di malinconia il vento si avvia lento verso il Cimitero, l’ultima tappa. Entra passando sotto l’arco di mattoni rossi, percorre il viale di ghiaia bianca, arriva alla tomba di pietra chiara e avvolge in un lungo abbraccio il marmo del sarcofago a forma di podio, con in cima il busto di Marco.

 

Infine, quando è notte, il vento riprende la strada del ritorno per riportare ai monti le amare, a volte sconnesse eppure toccanti parole con cui Marco aveva cercato di dare un senso alla sua straordinaria e infelice esistenza e lanciare un messaggio di giustizia:

 

Ma la mia storia spero che sia d’esempio per gli altri sport…che le regole ci siano ma devono essere uguali per tutti. Non esiste lavoro che per esercitare si deve dare il sangue e i controlli di notte… MA ANDATE A VEDERE COSA E’ UN CICLISTA… e quanti uomini vanno in mezzo alla torrida tristezza per cercare di ritornare con i miei sogni di uomo che si infrangono con droghe…ma dopo la mia vita di sportivo. E se un po’ di umanità farà capire che con uno sbaglio vero si capisce e ci si batte per chi sta dando il cuore. Questo documento è verità e la mia speranza è che un uomo vero o donna legga e si ponga in difesa di chi come e voleva dire al mondo regole per sportivi uguali. E non sono falso. Mi sento ferito e tutti I ragazzi che mi credevano devono parlare.

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