di Dino Pieri (Da “La Piê”, luglio-agosto 1982)
La festa religiosa maggiormente sentita a Cesena e nel territorio circostante è, senza dubbio, quella dell’ Assunta che, per aver luogo nell’ antica abbazia benedettina posta su un colle a Sud-Est della città, è comunemente chiamata festa della Madonna del Monte. Stando a quello che scrivono alcuni cronisti cesenati pare che già nella prima metà del sesto secolo o quanto meno nell’ottavo sorgesse sul monte Spaziano un piccolo monastero con un tempio in onore della Vergine. Si tratta peraltro di testimonianze non suffragate da documenti e quindi di veridicità assai dubbia. Sembra invece ormai certo che a fondare la prima chiesa sul monte Spaziano sia stato San Mauro, Vescovo di Cesena, secondo quanto apprendiamo nella sua vita scritta tra il 1040-1058 da San Pier Damiani: « Notò un breve promontorio distante circa quattro stadi dalla piccola città. Quel monte… rivestito da fitta boscaglia di svariate piante… egli lo chiese al Pontefice Romano che ne aveva il dominio; poi vi costruì per sé una piccola chiesa con una cella ». Circa l’anno della fondazione, lo possiamo collocare nella prima metà del decimo secolo se ci atteniamo alla cronologia di Pietro Burchi dell’episcopato di San Mauro. Pier Damiani riferisce che ai suoi tempi l’oratorio non era più nello stato primitivo ma ingrandito ed abbellito era divenuto « un celebre monastero in onore della Beata Vergine Madre di Dio » ed aggiunge che al Monte si solevano fare pellegrinaggi; particolare questo che fa pensare a un culto mariano già largamente diffuso.
Risulta con certezza storica da un rogito di Pietro dell’Aquarola che nel 1318 fu trasferita al Monte da Montereale, antica pieve della diocesi affidata ai Benedettini, una miracolosa immagine della Madonna, la stessa che si venera tuttora. Si tratta di una statua in gesso colorato, alta quasi due metri, raffigurante la Vergine con tra le braccia il Bambino. Per quanto gentili sono le fattezze della Madonna, avvolta in una tunica azzurra, altrettanto privo di grazia appare il Bambino, vestito di un chiassoso abito rosso fiamma, così da far pensare all’ opera di un’ altra mano.
Già nel secolo XIV la festa del 15 agosto risultava la più importante della città e tale data offriva motivo, molto più di oggi, per celebrazioni e solennità anche non religiose. La principale di queste manifestazioni fu la Fiera d’ agosto istituita nel 1418 da Carlo Malatesta reggente la città per il fratello Pandolfo III impegnato a guerreggiare in Lombardia. La durata della Fiera da nove giorni fu nel 1487 portata a quindici secondo la testimonianza di Giuliano Fantaguzzi. La Fiera viene ricordata anche dal cesenate Cornelio Guasconi, dell’ ordine degli Agostiniani, in un suo poemetto:
« El giorno poi de la santa assumptione / che uien d’ Agosto si fa una gran fiera / quindese dì con gran consolatione / sempre mercanti uien d’ ogni riuiera / dinar assai si vede, e assai persone / grechi, turchi, e christian d’ ogni mainera»
Il Guasconi che dà di Cesena « una visione fortemente colorata da un forte patriottismo locale » esagera forse un poco, però si sa con certezza che in questa circostanza convenivano moltitudini non solamente dal contado ma da città vicine e lontane, con mercanzie rare, e parecchi erano i divertimenti e le attrazioni. La Fiera si teneva nella contrada di San Severo (Porta Santa Maria, via Milano, via Isei); in seguito si allargò nelle contrade confinanti avendo il suo centro in via Strinati ancora oggi detta «la fira ».
Già temporaneamente abolita sotto Benedetto XIII, la Fiera d’ agosto cessò definitivamente nel 1848. Per la festa della Madonna del Monte vi era la partecipazione, che oggi chiameremmo ufficiale, delle autorità civili cittadine come prescritto dagli Statuti di Cesena: « Nel giorno poi dell’ Assunzione si visiti la chiesa di Santa Maria del Monte rilasciandovi un’ offerta in cera per lire 25 di bolognini; e questo si faccia con tutta quella solennità che si è sempre usata ». La mattina del 15 agosto tutti i membri delle Corporazioni di arti e mestieri e le varie rappresentanze del forese si riunivano nel palazzo del podestà per avviarsi, in solenne corteo, alla volta del Monte portando ciascuno una candela in mano ed un grosso cero per ogni corporazione. In occasione della festività si liberavano due carcerati non recidivi e si correva un palio assegnando al vincitore un drappo di seta. Ogni qualvolta pestilenze, terremoti ed altre calamità funestavano la zona, la comunità di Cesena si recava processionalmente al tempio portandovi un’ offerta e facendo celebrare Messe solenni. A testimoniare il fervore del culto stanno i grandi lavori di ampliamento del monastero e della basilica ad opera dei Benedettini e le visite dei Pontefici Giulio II (1507), Clemente VII (1523), Paolo III (1543) oltre ai cesenati Pio VI (1782) e Pio VII che nel 1814 incoronò l’immagine della Madonna. Con la venuta dei Francesi nel 1797, il monastero subì la prima soppressione, sino al 1814 però la festa dell’Assunta venne ancora celebrata sia pure in tono minore; il 15 agosto era infatti dedicato ai festeggiamenti per il genetliaco di Napoleone Bonaparte. Nel 1866, ad opera dello stato italiano, ci fu una seconda soppressione che ebbe termine nel 1887. Il 14 agosto di quell’ anno, con la ripresa del culto, tutte le colline sovrastanti la città si accesero di fuochi; manifestazione che però non ebbe seguito negli anni successivi.
Correndo sul filo dei secoli siamo giunti alla soglia dei nostri tempi; sarà quindi opportuno descrivere in maniera più particolareggiata la festa della Madonna del Monte nei suoi vari aspetti: religioso, folklorístico e, perché no, anche gastronomico. La vigilia della festività sui davanzali delle finestre della basilica e del monastero (ora illuminati da potenti riflettori elettrici) ardevano un gran numero di candeline che conferivano all’abbazia, emergente dall’ oscurità della notte, un aspetto quanto mai suggestivo. I fedeli venivano da tutte le località per la gran parte a piedi oppure in calesse. I primi partivano quando ancora l’alba non aveva imbiancato il cielo, con le scarpe a tracolla per non sciuparle durante il cammino, una sporta di provviste da consumare dopo la Messa e la corona del Rosario in mano. Fin dalle ore antelucane era un flusso continuo di pellegrini: mamme coi figlioli ciondolanti dal sonno, vecchi che facevano appello alle ultime energie pur di non mancare all’ annuale appuntamento, uomini che approfittavano della ricorrenza per confessarsi e comunicarsi lontano dagli sguardi indiscreti dei compaesani. Il poeta dialettale cesenate Giovanni Montalti (Bruchìn) in una sua zirudèla ha vivacemente descritto l’accorrere dei fedeli:
« O cun la sporta, mo cun la curona / Cesena e va truvè la su Madona! / Dal dò, dal tre, dal quatar dla matena / Stredi e suntir l’è com una fiumena! / Cala la Muntagnola a froti a froti / Bab e mame e burdel zò par c’ al moti! / A saltarel i s’ ardus int e pien / Cun i pi nud e s’al scherpi in t’ al men!»
Giunti in città, i pellegrini si pulivano alla meglio i piedi bianchi di polvere e, calzate le scarpe, iniziavano l’ascesa al Santuario passando tra due file pressoché ininterrotte di accattoni qui convenuti da ogni dove: «I mendicanti, seduti per terra ai lati della via, levano la voce chiedendo l’elemosina: è una triste esposizione di occhi acciecati, di braccia monche, di gambe contorte, di infermità ributtanti; il loro lamento insistente, tedioso, vi perseguita fino all’ entrata della Basilica». Così un foglio locale descriveva questa specie di corte dei miracoli, scomparsa dopo il secondo conflitto mondiale.
Una volta in chiesa, i fedeli più devoti, specialmente le donne, salivano in ginocchio la lunga gradinata che conduce alla parte superiore della basilica, recitando un’ Ave Maria ad ogni scalino. Dopo la Messa si tiravano fuori le provviste ed il prato fiancheggiante la chiesa fioriva di candidi tovaglioli di tela su cui si consumava la colazione per rifocillarsi prima del viaggio di ritorno. Una rapida occhiata alle bancarelle dei giocattoli e delle bibite, magari qualche piccolo acquisto per calmare gli sguardi avidi dei ragazzi e via di nuovo col caval di S. Francesco prima che la vampa del solleone trionfasse sull’ultima frescura del mattino. Alleviava la fatica del camminare la prospettiva del buon pranzo di mezzogiorno; per la festa dell’Assunta infatti il desinare era particolarmente abbondante sia nelle case di campagna che in quelle di città. Si iniziava con le tagliatelle asciutte insaporite con ragù di fegato di coniglio; un piatto alternativo, ma meno frequente, era costituito dalle pappardelle in brodo. Veniva poi il turno del coniglio arrosto cotto con lo strutto nel tegame di terracotta (e’ murtaról) col contorno di patatine novelle tagliate ciascuna in quattro spicchi. In città alcune famiglie portavano a cuocere il coniglio al forno e per le strade si spandeva un intenso ed allettante profumo. Annaffiato generosamente l’arrosto con sangiovese e gettati gli ossi del misero coniglio al cane e al gatto che se li dividevano più o meno fraternamente in crocchiare di denti, la mensa era illuminata dal tondo sole della ciambella e, mentre i bambini protendevano mani rapaci verso l’astro fragrante, gli adulti stappavano una bottiglia di bionda albana. Per ultimo ma non per questo meno gradito, faceva la sua comparsa un mostruoso cocomero lustro e gocciolante, da qualche giorno tenuto al fresco nel pozzo, chiuso in sacco di tela oppure libero a galleggiare sull’ acqua.
L’ anguria, nelle cui fette vermiglie ci si tuffava voluttuosamente, onde il detto « cun e’ com-bar u s’ fa tri us: u s’ bé, u s’ magna e u s’ lèva e’ mus », chiudeva il pranzo dell’ Assunta.
Nel tardo pomeriggio, quando il sole mitigava un poco l’ ardore dei suoi raggi, ci si dava convegno nell’ attuale Piazza del Popolo per la tradizionale tombola. A poco a poco la Piazza si riempiva di folla: gravi cittadini col bastone e l’immancabile sigaro, eleganti zerbinotti in paglietta, signore e signorine scodazzanti nell’abito di circostanza, campagnoli che si tergevano il sudore con ampi fazzolettoni rossi. Tutti, con in mano una o più cartelle, tenevano gli occhi rivolti ai balconi del Palazzo comunale dove stava per iniziare il rituale della tombola. Uno squillo di tromba ed ecco dal balcone di sinistra affacciarsi la popolare figura di Blóz che, ad estrazione iniziata, gridava a gran voce i numeri mentre nel balcone di destra c’era un grande tabellone per poter seguire l’andamento del gioco. Ad ogni numero estratto i più disparati commenti si levavano dalla Piazza seguiti spesso da scrosci di risa, forse per allentare la tensione che andava mano a mano salendo. Il grosso premio era infatti un boccone tanto ambito da far perdere talvolta la calma necessaria, per seguire le fasi dell’estrazione. Capitava allora che qualcuno credendo di aver fatto tombola lanciasse alte grida di trionfo per poi sgattaiolare via accompagnato da una solennissima fischiata una volta appurato l’errore. A gioco terminato la gente sfollava pian piano disperdendosi in mille rivoli per le strade cittadine. La tombola, che nell’ Ottocento era preceduta da una corsa di cavalli berberi, è durata sino alla fine degli anni trenta, poi la seconda guerra mondiale ha spazzato via questa tradizione.
Oggi molte cose sono mutate: i pellegrini giungono al Santuario non più camminando tra la polvere ma a bordo di comode automobili; ai lati delle strade che conducono al Monte non stazionano più laceri mendicanti ma è tutto un susseguirsi di ville ridenti tra i fiori. Rimane immutato invece il culto della Madonna ed il giorno della festa la chiesa, il chiostro, l’ampio piazzale sono ancora gremiti di gente. Chi volesse ripercorrere attraverso i secoli la storia di questa devozione mariana non dovrebbe far altro che soffermarsi davanti alla mirabile raccolta di ex voto disposta all’ interno della basilica. Sono 690 tavolette lignee che vanno dalla seconda metà del secolo XV ai giorni nostri e rappresentano una eccezionale rassegna dei costumi romagnoli. « Rivive in quei dipinti la vita dei coloni che si preoccupano di coprire con le coperte stampate a colori la schiena dei bovi; compare la famosa « castellata » romagnola per il trasporto del mosto ed in genere la casa colonica delle nostre campagne, il lavoro dei campi che si giova degli strumenti primitivi come l’aratro di legno » Nella penombra della basilica i fedeli cantano rivolti alla statua della Madonna aureolata di luce; qui veramente le tumultuose vicende della storia sembrano placarsi nella serenità della fede:
“La Madunina, in Cisa, fra la lusa / La mande un gran splendor, cum’è ch’ l’ as brusa! / La i à e Babìn in braz che ten e Mond / La stesa di su fiul i ė a lè d’ attond! / Chi c’ an spò met in znoc i resta in pia / I prega tot insen e guerda a Lia / O Regina, de Monte, Santa Maria!“
Un bel racconto, interessante , trovato per caso e per curiosità.