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Buon giorno care amiche e cari amici e buona settimana! Oggi riprendiamo la storia di Cesena che avevamo lasciato (al capitolo 13), nelle mani di Cesare Borgia che ne voleva fare la capitale del suo principato. Il progetto del Borgia fallì e la città tornò sotto il diretto governo del papa Giulio II. Per alcuni decenni la città continuò ad essere da lotte interne tra le famiglie più potenti poi le violenze vennero represse e, come sintetizza Roberto Casalini nella sua “Storia di Cesena”: “D’ora in poi …la storia di Cesena è una calma piatta…” Finchè, alla fine del secolo XVIII°, non avviene “qualcosa” che cambia profondamente la storia della città:

Napoleone Bonaparte (lo vediamo, in veste di imperatore, nella tela del cesenate Vincenzo Baldazzi conservata in Pinacoteca, copia di una tela più ampia di Francois Gerard) entrò in Cesena alle ore 22 di domenica 5 febbraio 1797, come si ricava dalle cronache di Mauro Guidi e di Carlo Antonio Andreini. Aveva già vinto battaglie memorabili, conquistato l’Italia del nord e si apprestava ad occupare lo stato della Chiesa, retto dal papa cesenate Pio VI Braschi (qui ritratto da Giandomenico Porta in una tela ora in Comune che mostra, sullo sfondo, il Savio ed il Ponte Vecchio).

Lo spettacolare passaggio del Bonaparte per le vie del centro dovette destare grande impressione tra i nostri concittadini di allora.

Giunto a Porta Fiume, infatti, Napoleone scese dalla carrozza, montò a cavallo e attraversò la città a spada sguainata, scortato da 90 dragoni di Cavalleria (scrive Mauro Guidi, mentre per Gioacchino Sassi “in mezzo a 400 Francesi a Cavallo”) fino a Palazzo Guidi dove convocò immediatamente le autorità ecclesiastiche e civili. Per la curia si presentò il vicario vescovile in quanto il vescovo Carlo Bellisomi aveva pensato bene di lasciare la città. Alla classe dirigente cattolica e laica Bonaparte tenne un discorso di sicuro effetto, affermando che non erano più sudditi del Papa ma della Francia e ammonendo tutti alla fedeltà se non volevano provocare la sua terribile reazione, ai sacerdoti raccomandò di predicare il Vangelo e prendersi cura delle anime ma lasciare a lui ogni governo terreno.

Due ore dopo, intorno alla mezzanotte, riprese il viaggio per Ancona con la sua scorta, non prima di aver posto il francese Giovanni Duc a capo della piazza cesenate. Napoleone sarebbe ripassato per Cesena il 28 dello stesso mese, di ritorno da Ancona ma solo per il breve tempo di un cambio di cavalli.

La fine, seppur temporanea del governo papale e l’occupazione o la liberazione (a seconda dei punti di vista) da parte dei Francesi segnava per Cesena l’inizio di enormi trasformazioni: le magistrature politiche vennero cambiate, le distinzioni di classe e i titoli nobiliari aboliti, i vertici di tutte le istituzioni gestite da ecclesiastici sostituiti da laici, eliminato il tribunale dell’Inquisizione.

Scattò per tutti l’obbligo di considerarsi “cittadini” e portare la coccarda tricolore. La vendita dei beni ecclesiastici provocò un gigantesco trasferimento di fortune. Il mantenimento dell’esercito comportò esose richieste di denaro, viveri e un reclutamento basato sulla leva obbligatoria, una novità estremamente pesante.

Il convento francescano e la Malatestiana furono trasformati in caserma e le chiese spogliate di paramenti sacri e opere d’arte che, in parte vennero portate via, come la grande pala con la “Disputa sull’Immacolata Concezione” di Girolamo Genga che era a Sant’Agostino ed ora è al Museo di Brera.

Anche la vita civile e le feste mutarono: il 2 maggio 1797 venne innalzato nella Piazza maggiore (attuale Piazza del Popolo) l’Albero della Libertà (nella foto il disegno di Carlo Andreini) e, come scrive il cronista cesenate Gioacchino Sassi “In quest’occasione fu fatta una grande Festa…le Autorità stesse in Piazza circondarono l’Albero con un Ballo patriottico e con immensi evviva che sembravano tutti pazzi… Nel doppo pranzo vi fu la Giostra e, la sera, Maschere e Ballo generale e tante altre pari pazzie“.

 

Mauro Guidi descrive inorridito i mutamenti della morale prodotti dal nuovo spirito di libertà, scagliandosi contro la licenza dei costumi ed il comportamento scandaloso delle donne: “Le zitelle che erano lo specchio dell’onestà divenute così disoneste che si son rese pubbliche e divertimento disonesto di tutti, vestite di corta vita e le sottane legate di sotto le tinne per non farsi veder incinte, e girano giorno e notte franche per le nostre contrade. Braccie nude, spalle, e petto scoperto e mostrano le tinne; scarpe da uomo con punta…non vergognasi tanto in teatro che sotto ai portici di formare peccati di carne… e quel che è peggio molto vestite di seta e di fine mosso senza altro vestito che camminando si scopre come sono create ne le parti più vergogniose… parlano contro Dio, Maria, il Papa, la Chiesa, il sacerdote, bestemmie, parole oscene, sgarberie, Baronate, e ridono e godonsi e giubilano e se la spassano, ma basta così“.

Una singolare descrizione della Cesena di fine ‘700 come una città senza freni e senza vergogna.

I cronisti locali, in genere fieramente ostili ai rivolgimenti napoleonici, testimoniano il turbamento e l’opposizione della classe dirigente conservatrice di fronte alle novità rivoluzionarie.

Quella che era stata la quieta, papalina Cesena era entrata nell’età moderna.

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