Oggi, forse, si è in parte affievolita la memoria di quello che fu un secolare e grandioso fenomeno economico, sociale e tecnologico del nostro territorio: l’estrazione dello zolfo nelle miniere delle nostre colline: Formignano, Busca, Montevecchio, Monteaguzzo, Valdinoce, Boratella 1°, 2° e 3°, Piavola, Ca’ di Guido … grazie al lavoro di tanti minatori.
Un lavoro durissimo, fatto di tante ore (turni di 12 ore) in cunicoli scavati metri e metri sotto terra, alla fioca luce di torce o lampade, con scarso ossigeno e il pericolo incombente di crolli, fughe di gas, esplosioni.
Cunicoli sotterranei in cui serviva molto coraggio anche solo a calarsi, figuriamoci a viverci a lungo! E poteva essere chiamata vita quella in cui si scendeva in una specie di girone infernale da cui non si era sicuri di uscire?
Quel lavoro più che dal coraggio nasceva dalla disperazione della miseria. E, così, per secoli le miniere diedero un misero salario a migliaia di lavoratori e ricchezza alle compagnie sfruttatrici ed anche alla città di Cesena.
Scrive efficacemente Pier Paolo Magalotti che ha dedicato anni allo studio delle miniere ed è appassionato fondatore, nel 1987, della “Società di Ricerca e Studio della Romagna mineraria”: “Per secoli migliaia di uomini furono protagonisti di un’attività, quella di aprire pozzi e gallerie nel ventre della terra, su queste nude colline dove fumigavano incessantemente i forni fusori o calcheroni che impregnavano di fumi di zolfo l’orizzante depresso. Questi brevi accenni di ricostruzione del passato vogliono essere una testimonianza della fatica e della sofferenza, delle violenze e delle lotte, delle speranze e della solidarietà che, nel corso delle generazioni, furono la tenace vita di tanti minatori. Per una certa cultura queste persone sono considerate dei senza storia, perchè appartenenti alle classi subalterne, all’universo di coloro che si sono quasi sempre espressi oralmente, lasciando pochissime testimonianze scritte e delle cui esperienze di vita, di amore, di lavoro e di dolore pochi hanno parlato. Per tutto ciò è nostro dovere rendere loro testimonianza” (in “Fede e zolfo in Formignano” di Pier Paolo Magalotti e Claudio Riva Stilgraf Cesena 2006).
E in un saggio per “Studi Romagnoli” anno 2016 in cui ricostruisce l’avventurosa e violenta vita del minatore della Boratella Rinaldo Brunetti:”… il tasso di mortalità era elevato e la vita media del minatore pari a 30 anni. L’insufficienza di ossigeno nelle gallerie per le polveri di silicio dopo lo sparo delle mine e, all’esterno, per i fumi che giorno e notte si sprigionavano dai calcheroni dove avveniva la fusione dello zolfo, impoveriva il sangue del minatore causando danni al cervello e agli organi cardiaci. A lungo andare il carattere di questi operai diventava cupo e triste…Tutto ciò creava un notevole disagio sociale…che degenerava in frequenti omicidi, femineti e agitazioni non autorizzate.”
Nel volume “Paesi di zolfo Le miniere di zolfo nel Cesenate” (“Il Ponte Vecchio” Cesena 1998) Magalotti ricostruisce la storia delle miniere cesenati di cui una, detta la “Sulfaranaccia”, era già sfruttata in età romana.
Con la scoperta, intorno al 1300, della polvere pirica (misto di potassio, carbone e zolfo) crebbe l’importanza delle miniere e la ricchezza di Cesena. Certamente l’idea di farne la capitale del suo principato nacque in Cesare Borgia anche tenendo conto della centralità di Cesena tra miniere di zolfo (pare di eccellente qualità) e saline di Cervia. Il progetto di un canale tra Cesena e Cesenatico, del cui progetto era stato incaricato Leonardo da Vinci, era legato anche all’esigenza di trasportare lo zolfo, così come la presenza a Cesena di una figura di esperto di cannoni e polvere da sparo come Francesco Arcano.
Lavorato sulle colline, lo zolfo veniva trasportato a Cesena e di qui a Cesenatico da cui per mare raggiungeva Ancona per essere inviato, su navi più grandi, verso Spagna, Inghilterra, Olanda.
Nel 1759 il poeta cesenate Vincenzo Masini pubblicò il poema “Il zolfo” esaltando la miniera che stava per iniziare il suo periodo più florido. Durante il secolo XIX, infatti, si ebbe il “boom” dell’attività estrattiva.
“Negli anni dal 1874 al 1880… periodo di massimo sviluppo, la produzione media annua della sola Boratella 1° si aggirava sulle 10.000 tonnellate di zolfo grezzo, con un impiego di manodopera intorno alle 1.200 unità” (P.P. Magalotti in “Paesi di zolfo”).
Le condizioni dei lavoratori rimasero molto pesanti.
Non c’era solo il lavoro in miniera a prosciugare le energie e minare la salute.
I guadagni venivano spremuti anche dai gestori dei “bettolini”, costruzioni in legno vicine alla miniera che erano un misto tra osterie e spacci aziendali dove si vendevano vino e generi alimentari, spesso scadenti o avariati.
“La conduzione di questi bettolini avveniva con sistemi speculativi, addirittura immorali, cercando di trarre profitto dal bisogno dei minatori… in quanto le botteghe vicine distavano vari chilometri… nei bettolini spesso avvenivano discussioni, alterate da abbondanti libagioni, che sfociavano in risse, ferimenti ed in molti casi in omicidi” (P.P.Magalotti in “Paesi di zolfo”).
A cavallo del ‘900 l’attività delle miniere nel Cesenate cominciò ad entrare in crisi a causa della concorrenza delle miniere siciliane, dove veniva ancor più sfruttato il lavoro minorile e dell’introduzione sul mercato di enormi quantitativi di zolfo prodotto negli Stati Uniti con nuove tecnologie e a prezzi più bassi.
Molti minatori, rimasti senza lavoro, emigrarono in Brasile trovando spesso condizioni di lavoro e di vita ancora più dure.
Alla metà del secolo scorso la crisi divenne tale da comportare la chiusura, nel 1962, dell’ultima miniera aperta a Formignano.
Una storia secolare ricca di tante vicende che qui è impossibile raccontare.
Bisognerebbe dire delle lotte dei lavoratori per tutelare i loro (pochi) diritti, di incidenti spesso mortali, di violente risse ed efferati delitti ed anche di personaggi notevoli come Natale Dellamore, pioniere dell’industria dello zolfo nel Cesenate ed inventore, nel 1867, dell’ippoferrovia della Boratella 3° (grandi carrelli trainati da cavalli su binari lunghi 5 Km. dalla miniera alla strada provinciale) o dell’ingegnere ungherese Francesco Kossuth (figlio dell’eroe nazionale Lajos) che diresse con energia e coraggio la “Cesena Sulphur Company Limited” dal 1873 al 1887.
Oggi, purtroppo, quello che rimane delle miniere sono scheletri di edifici diroccati e pozzi dove non è possibile scendere.
C’era un progetto di fare del villaggio minerario di Formignano un museo ma è rimasto sulla carta e l’impegno ammirevole della “Società di Ricerca e Studio della Romagna mineraria” per valorizzarne la memoria è messo a dura prova.
Una visita al villaggio risulta, comunque, suggestiva e ricca di emozioni al solo pensiero della terribile fatica e della esistenza disumana dei minatori. Nell’ottobre 2005 è stato inaugurato il monumento “Al Minatore” (opera delll’artista Tito Neri), in piazza Solferino a Borello ed al villaggio minerario c’è una stele dedicata ai caduti in miniera.
Alcune immagini di minatori compaiono nei murales che abbelliscono Borello e ne ricordano i personaggi più significativi.
In un ampio murale di via Paternò sono raffigurati tre minatori che giocano a carte in un “bettolino” sotto lo sguardo benevolo di Vincenzo Ciccone, medico condotto di Borello e delle miniere. E’ opera del pittore cesente Gianluigi Romboli, patrocinata da Renzo Zignani (figlio di un minatore) che, dopo aver lavorato parecchi anni come dirigente d’azienda a Milano, è rientrato nel paese natale che sta valorizzando con numerose iniziative artistiche e culturali.
Due minatori che avanzano con gli strumenti del lavoro sono stati dipinti dallo stesso Romboli su una parete esterna del Quartiere di Borello, per iniziativa del Consiglio.
Ogni anno si svolge a Borello la “Sagra del Minatore” durante la quale sono organizzate visite al villaggio minerario.
Iniziative che, in qualche modo, mantengono viva la memoria di quello straordinario fenomeno che fu l’epopea delle miniere sulle nostre colline.