Scrivi per cercare

Mendicanti e vagabondi per le strade di Cesena

di Dino Pieri

Dino Pieri tratteggia alcune figure di mendicanti e vagabondi che hanno percorso le strade di Cesena: vi proponiamo un estratto dell’articolo, pubblicato su “La Piê” nel 2012.

Agli albori dell’Ottocento, quando ai bestemmiatori, specialmente se recidivi, si comminavano gravi pene, c’era un certo mendicante soprannominato Biastimèla, solito a prorompere in bestemmie se nei suoi vagabondaggi per le vie di Cesena gli si rifiutava l’elemosina.

Già più volte condannato, improvvisamente smise di pronunciare imprecazioni blasfeme; nei momenti di rabbia toccava un bottone della lunga palandrana bisunta esclamando: «Boja de’ prem ptón!»; in certi casi passava al secondo: «Boja de’ sgond ptón!». Se poi era sopraffatto dalla collera, gridava «Boja ad tóta la ptunìra!». Il mistero di questo strano comportamento durò a lungo finché si scoprì che Biastimèla aveva cucito dentro ciascun bottone immagini di santi e madonne riuscendo così a rimanere fedele al suo soprannome in barba al rigore delle leggi.

 

         Durante il ventennio fascista si ebbe una singolare figura di mendicante, arguto e senza peli sulla lingua, conosciuto col nomignolo di Pitìn. Può sembrare strano che di un personaggio così popolare poco si sapesse  sulla provenienza: pare che fosse nato nella campagna ravennate e approdasse a Cesena negli anni della maturità. Vestito di stracci, la barba incolta, un cappellaccio in testa, non molestava le ragazze ed aveva una sua dignità anche nel chiedere l’elemosina. Dormiva dove capitava, quasi sempre all’aperto, ma al sopraggiungere dell’inverno rompeva con un sasso la vetrina di un negozio per poter usufruire di un pagliericcio nelle carceri della Rocca. Oppure lanciava una sassata al regime gridando: «Viva l’anarchia!». Una volta a mandarlo in prigione fu addirittura il podestà perché avendo questi promesso a Pitìn una lira se gli diceva chi era il più gran ladro a Cesena, si sentì rispondere: «Il podestà!». Pronto nelle battute, richiestogli dall’avvocato Gino Giommi quanto pesasse la terra, non esitò a ribattere: «Avuchèt, cavé tot i sas e me a v’ dégh quant ch’la pésa!». L’Anonimo Romagnolo (Pietro Spada) narra che, recluso nelle carceri di Forlì in quanto antifascista, si servì di Pitìn, che vi trascorreva l’inverno, per entrare in contatto con un prigioniero politico, riuscendo così a fare evitare la galera ad un ricercato dall’O.V.R.A.. Una persona quindi affidabile il nostro mendicante, disposto ad affrontare rischi non lievi pur di mantenere la parola data. Pitìn visse a lungo e quando, ormai vecchio, non poteva più reggere a una vita di stenti, trascorse gli ultimi anni nel ricovero per anziani.

 

         Altro tipo caratteristico è stato Bozambo (Aldo Marco Gigli, 1922-1987), così soprannominato forse per l’aspetto vagamente scimmiesco: curvo, con lunghe braccia, mani e piedi fuori misura, bassa la fronte ma di indole mite, se avesse trovato un’anima buona disposta ad aiutarlo, sarebbe stato in grado di praticare un lavoro purché non troppo impegnativo. Fu invece lasciato in balia di se stesso finché se ne impossessarono, nel vero senso della parola, un gruppo di giovinastri della cosiddetta “Cesena bene”, i quali, ostentando nei suoi confronti amicizia e addirittura ammirazione, ne fecero lo zimbello dei loro passatempi finendo per stravolgergli quel po’ di cervello concessogli da natura. Cominciarono col dirgli che era dotato di una bellissima voce e che, se si fosse esercitato, sarebbe potuto diventare un celebre tenore. Ed eccolo ululare nella piazza del duomo, tra le risate di quegli spregevoli individui che poi lo portavano a bere al Caffè Centrale fingendo di congratularsi per le sue doti canore. Gli fecero balenare anche la possibilità di intraprendere la carriera di attore cinematografico, costringendolo a grotteschi travestimenti; venne quindi la volta del giocatore di calcio e, via di questo passo, lo ridicolizzarono in tutte le maniere, senza che nessuno muovesse un dito per far cessare questa farsa penosa. A Bozambo pareva di non essere più il mendicante in cerca di un’elemosina da spendere all’osteria; quei giovanotti eleganti che lo cercavano per condurlo con loro alla partita, al bar, al cinema e non perdevano occasione per esaltare le sue qualità di artista, erano diventati per lui esseri straordinari a cui obbedire ciecamente. A risvegliarlo dal mondo dei sogni ci fu la dispersione dei suoi accompagnatori: ormai adulti, ognuno se ne andò per proprio conto e al povero Bozambo non rimase che riprendere l’accattonaggio. Non resistette però a lungo e si recò nel Ravennate a lavorare saltuariamente nelle campagne; tuttavia Cesena, dove aveva vissuto quello che per lui era stato il periodo più bello della sua misera esistenza, gli era rimasta nel cuore. Così dopo alcuni anni vi fece ritorno. Si adattò a eseguire qualche lavoretto prima di lasciare questo mondo dove falsi amici che, grazie al denaro, potevano permettersi qualsiasi sfrontatezza, col tacito consenso di chi avrebbe potuto e dovuto intervenire, lo avevano trasformato in oggetto di scherno e di trastullo.

         Concludiamo questa rassegna di miseria, fame, maltrattamenti con Enzo Mazzoni detto Birimbo (1921-1983) che può essere considerato, per quanto riguarda Cesena, l’ultimo professionista del vagabondaggio. Ciò non significa la scomparsa della povertà che, anzi, con l’odierno afflusso dei migranti è sotto gli occhi di tutti, ma i nuovi questuanti rimangono anonimi, estranei alla vita della città, fugaci apparizioni quasi prive di consistenza, che si dileguano senza lasciare traccia. Enzo Mazzoni, nato in una povera famiglia di braccianti a Rontagnano, frazione di Sogliano al Rubicone, trascorse l’adolescenza e la prima giovinezza come guardiano di pecore. Si allontanava da casa alle prime luci dell’alba, con nella borsa un tozzo di pane e qualche crosta di formaggio, rimanendo tutti i giorni nella solitudine dei pascoli, tranne la domenica quando con la scarsa paga settimanale si recava all’osteria a bere fino all’ultimo spicciolo. Divenuto ben presto dipendente dal vino, abbandonò il proprio paese iniziando a vagabondare dapprima nei villaggi circostanti, poi scendendo al piano fino a Cesena che sarebbe diventata il punto di riferimento di una vita errabonda. Munitosi di una fisarmonica, trascorreva le giornate strimpellando per le strade qualche canzone e proprio da una di queste allora molto in voga — «Birimbo, birambo, io canto così» del repertorio di Natalino Otto — gli venne affibbiato, nonostante le sue proteste, il soprannome di Birimbo.

L’elemosina non gli veniva quasi mai negata anche per la simpatia che ispirava quel sorriso accattivante e buono in un volto abbronzato, da marinaio. Sapeva essere arguto; a un signore che insisteva a chiedergli perché bevesse, rispose: «E tu perché respiri?». Ogni tanto si recava in montagna sostando presso i contadini che aiutava nella pulizia delle stalle in cambio di un piatto di minestra e di un giaciglio per la notte. Durante queste sortite poteva capitargli di incontrare Gervasio (Giovanni Gervasi, 1907-1985), il sarsinate in perenne cammino per i monti. Da una parte Gervasio alto e vigoroso, affiancato da due cani tenuti alla catena e sulle spalle lo zaino per gli strumenti di sellaio e impagliatore, dall’altra Birimbo, piccolo e magro con la inseparabile fisarmonica: due randagi alla ventura, in lotta con la fame e le intemperie. Enzo soffrì molto la lontananza da Cesena negli anni in cui, a causa del fisico logorato dal vino e dagli strapazzi, venne ricoverato a Predappio presso l’Opera san Camillo. Ne ritornò precocemente invecchiato, coi capelli tutti bianchi e senza la fisarmonica, sostituita da una radiolina che teneva sempre accostata all’orecchio.

Forse gli faceva compagnia aiutandolo ad uscire dalla solitudine che lo aveva afflitto fin dagli anni della fanciullezza. Il passo era diventato incerto, tuttavia lo si vedeva, spinto dal demone dell’alcool, continuare a chiedere l’elemosina per le strade pur essendo stato accolto in una casa protetta. Quando una morte improvvisa per infarto lo portò via, in una busta nascosta sotto il materasso vennero trovati il denaro per il funerale e un foglio con scritte le ultime volontà: chiedeva di essere vestito di bianco e sepolto in un tombino. Naturalmente fu accontentato. Nel viaggio estremo, dopo tanto peregrinare, non era più solo, c’erano molte persone, musica e fiori a testimoniare che quel mendicante sempre sorridente aveva fatto breccia nel cuore della città. Qualche giorno dopo la scomparsa, una signora inviò al “Resto del Carlino” una lettera attestante la generosità di questo vagabondo: ricordava infatti di aver visto Enzo Mazzoni, da tutti chiamato Birimbo, allungare cinquecento lire a una zingara seduta sul gradino di una chiesa, con in braccio un bambino.

 

Dino Pieri

Tags::
Articolo precedente
Prossimo articolo

1 Commento

  1. fiorenza 28 Giugno 2022

    buongiorno Dino Pieri, mi chiamo Fiore, leggendo tra le pagine di internet sono giunta questo vostro meraviglioso viaggio . Ero di Cesena e mio padre portava Pieri di cognome, figlio di Mario e Angela, c’è parentela con voi? grazie mille per le bellissime storie. Fiore

    Rispondi

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Questo sito è protetto da reCAPTCHA, ed è soggetto alla Privacy Policy e ai Termini di utilizzo di Google.

Prossimo