La prima figura di cui parliamo in questo blog non a caso è quella di Nazzareno Trovanelli, una vera icona della cultura della nostra città.
Oltre che notaio ed insigne studioso, fu fondatore e direttore del «Cittadino» dove tre pagine erano sempre dedicate alla storia di Cesena, documentata da lui stesso con minuziose ricerche di archivio. E’ dunque anche grazie al giornale da lui diretto che oggi conosciamo tante storie importanti e minori della città che probabilmente sarebbero conosciute da pochi.
Un secolo dopo, con questo blog, vorremmo dare il nostro piccolo contributo alla diffusione delle storie della città. La distanza abissale che ci divide dalla cultura e dalla raffinatezza del Trovanelli, non ci impedisce tuttavia, fatte le debite differenze, di utilizzare internet come strumento di trasmissione di tanti contenuti. Essi saranno divulgati con un linguaggio semplice, senza pretesa di rigore scientifico, ma con lo stesso entusiasmo di chi voleva mantenere viva, nella comunità, la passione per il nostro passato.
Attraverso la testimonianza del nipote, il prof, Sergio Camerani che nel 1965 lo descrive nei suoi ricordi d’infanzia, ecco un dettagliato e romantico spaccato di Cesena e di una giornata di Nazzareno Trovanelli di inizio 900. E’ anche possibile ascoltare la narrazione di Camerani dalla voce di Lorenzo Pieri, cliccando sul lettore MP3 qui sotto
Ricordo la Cesena di cinquant’anni fa: una Cesena assonnata, ancora senza industrie. prevalentemente agricola, che si animava solo il sabato quando la piazza (come si chiamava allora comunemente la piazza Vittorio Emanuele) e le adiacenze erano invase per il mercato settimanale dalla folla dei grossi, rubicondi contadini, rivestiti d’inverno con la capparella, il fazzoletto di colore annodato al collo al posto della cravatta, il cappello di feltro bombato, con la classica “fitta” sulla destra e il grosso bastone al braccio.
Negli altri giorni, pace completa: la vita si svolgeva fra i due luoghi di ritrovo, il caffè Guidazzi, sotto le logge dell’ospedale, e il caffè Forti, sotto il palazzetto Braschi.
Fra l’uno e l’altro e nel breve tratto del corso che si spingeva fino alla barriera daziaria, sulla via della stazione, si trovavano la posta, le banche, i migliori negozi (che si spingevano anche sotto i portici sulla via Zeffirino Re), la farmacia più importante (quella dell’ospedale), il più rinomato studio fotografico, Casalboni, e cosi via.
Dietro palazzo Braschi, in una zona se possibile ancor più quieta, nella Piazza Bufalini, il Liceo e la Biblioteca Malatestiana. Presso i giardini pubblici (non molto frequentati, a dire il vero) il Teatro Giardino che, ai miei tempi, accoglieva compagnie di prosa e di operette, e il Teatro Comunale, che si apriva nel settembre per stagioni liriche, spesso di alto livello.
La domenica, dopo la messa di mezzogiorno, in duomo, c’era la passeggiata d’obbligo delle migliori famiglie, sotto i portici, fino alla piazza, con soste nei negozi, che erano tutti aperti, e lo scambio di saluti contegnosi fra le signore rivestite a festa.
I giovani. fuori della chiesa, attendevano l’uscita della «haute» cesenate. In autunno la città assumeva un aspetto odorosamente agreste, quando era percorsa dai carri d’uva che le famiglie, anche modeste, comperavano, per fare il vino in casa.
D’inverno una soffice coltre di neve, d’estate una pesante afa, che gravava sulla pianura, rendevano ancor piú quieto il piccolo centro. In questo piccolo ambiente, viveva — e si trovava bene — Nazzareno Trovanelli, fra l’archivio notarile, quello comunale (che riordinò pazientemente col Malagola), la biblioteca e il suo giornale, il « Cittadino ».
Piccolo, un po’ tozzo, completamente calvo, con l’ampia barba bianca che gli fluiva sul petto, era una delle figure più note, ed era anche, senza alcun dubbio, il maggiore esponente della cultura cesenate del tempo. Di una rigidissima moralità nella vita privata come nella pubblica, talvolta brusco nei modi, aveva un carattere fermo, avverso ad ogni flessione o tentennamento, che lo portava a prendere posizioni nette, anche serrate, in qualunque circostanza, ma sempre in buona fede.
Avversari ne contava. specie in politica, ma a tutti incuteva rispetto e stima. Però sotto la dura scorza, dietro quell’atteggiamento rigido, quelle espressioni taglienti, c’era un cuore generoso pronto ad aiutare i bisognosi, restio ad infierire contro chi aveva errato, lieto di aprire le porte ai giovani promettenti: Renato Serra ne seppe qualcosa. Abitava con le sorelle in quel palazzo dei conti Di Bagno che è posto in Via Garibaldi e aveva riservato per sé un appartamento composto di un ampio, lunghissimo corridoio tappezzato di libri, di una grande sala adibita a studio e di una immensa stanza da letto. Si alzava piuttosto tardi e si recava subito all’archivio notarile dove aveva lo studio, nell’antico palazzo sede della posta. (e dove piú tardi, in tempo fascista, fu apposta a lui una lapide con il solito avverbio, « romanamente », che era tutt’altro che appropriato al suo carattere romagnolo, alieno da ogni tronfia solennità) per trattenervisi fino a ore che a me, bambino, sembravano inverosimili: le due, le tre del meriggio, il sabato anche le quattro.
Rientrava finalmente a casa, per l’unico pasto quotidiano, con le tasche straripanti di giornali di ogni colore politico e di riviste, accolto con deferente rispetto dalle sorelle. Usciva di nuovo quasi subito, per recarsi o in biblioteca o ancora allo studio e finalmente, verso le sei del pomeriggio, tornava a casa a prendermi per la quotidiana passeggiata.
Cominciava allora un curioso vagabondare per la città: quattro passi verso il duomo, ed ecco un amico al quale si univa, poi un altro ancora, pescato sotto i portici dell’ospedale, e un terzo che veniva lemme lemme dal corso, e via tutti insieme, prima al chiosco dei giornali ad acquistare le ultime edizioni, poi al caffé Forti, un bel caffé ottocentesco con le seggiole e i divani ricoperti di velluto rosso.
Talvolta l’amichevole seduta aveva luogo altrove, ed era preceduta da una passeggiata (per Cesena era una lunga passeggiata) verso il buffet della stazione gestito allora da Casali e sempre provvisto di primizie, di cui mio zio era molto ghiotto. Attorno al tavolo di marmo. sul quale il cameriere aveva posto boccali di birra spumosa per i grandi, e lo sciroppo di amarena con le ciliege per me, sedevano — ricordo vagamente — il dott. Baronio, l’avvocato Jacchia, l’ing. Belletti, il fotografo Casalboni e altri ancora, per discutere di politica, di amministrazione cittadina, di spettacoli musicali, di musica soprattutto, quando il « Comunale » era aperto.
Trovanelli, wagneriano convinto, non aveva simpatia per Puccini (era particolarmente avverso alla Fanciulla del West) e sfoderava argomenti a favore dell’Amore dei tre Re di Montemezzi, un’opera caduta oggi nell’oblio, o del Sansone e Dalila di Saint-Saens di cui fu data una ottima esecuzione nel 1911 alla presenza dell’autore. Allora, in quel piccolo centro, la stagione lirica suscitava appassionate discussioni ed entusiasmi, perché costituiva, durante l’anno, il periodo migliore, più vivo della vita culturale cesenate. I giudizi netti, decisi dello zio suscitavano risposte vivaci, polemiche degli amici che però, se il ricordo non mi inganna, conservavano sempre un tono di cordiale deferenza.
La personalità di Trovanelli si imponeva. Verso le otto la compagnia si scioglieva: la grossa sagoma del dott. Baronio e quella piú snella dell’ing. Belletti si dissolvevano fra le ombre della sera nel piazzale semi-deserto della stazione.
Mio zio a volte completava il mio spasso pomeridiano prendendo una delle rare carrozze che sostavano in attesa dei treni, guidata per lo piú dal fiaccheraio Bartlein. Nelle vie ormai silenziose e poco illuminate risuonava solitario sull’aspro selciato il piccolo trotto del cavallo che mi riconduceva a casa.
Qui mi attendeva una consuetudine, comune allora a molte famiglie: il rosario. Vi partecipavano di solito le zie (la maggiore prendeva il comando), la servitú (una vecchissima donna semi addormentata su una poltrona, ed una piú giovane) e le amiche delle zie che tutte le sere convenivano lí, prima di cena, per due chiacchiere, mentre lavoravano per fare aggiustare una maglia o un calzino di lana.
Lo zio, materialista convinto, non entrava neppure in casa: mi lasciava sulla porta e riprendeva il suo vagabondare per la città, per finire quasi sempre al caffé Forti dove fra un latte, una pasta, o un poncino (quella era la sua cena) serviti dal vecchio cameriere Poldo, completava la lettura dei giornali o sfogliava uno dei tanti libri che acquistava quasi ogni giorno (e sono andati poi ad arricchire la Biblioteca Malatestiana), in attesa dei compagni di gioco.
Perché Trovanelli, l’illustre personalità cesenate, che ricopriva tante cariche cittadine ed era fatto segno alla profonda stima di studiosi italiani e stranieri (ne fanno fede le lettere edite dal Bazzocchi e quelle inedite, ne è prova l’amicizia del Carducci) non disdegnava di sedere al tavolo con persone di modesta condizione per una partita a briscola o a scopa. Non era, a quanto narravano allora le cronache, molto abile in materia, e suscitava spesso le ire del compagno, cosicché talvolta gli capitava di sentirsi apostrofare: “Sgnor avuchèt, mo cuse al in te zarvèll “, al che lo zio, piccato nel suo orgoglio di giocatore, rispondeva secco, ristabilendo le dovute distanze: “Quello che non avete voi!”
Sul tardi, nel silenzio della note, si udiva un passo pesante per le vie deserte: Trovanelli rincasava, ma non per riposare. Su per le scale che conducevano all’appartamento era accolto dal fedelissimo gatto rosso, che lo attendeva ogni sera. Poi entrava nello studio e — cappello in capo, pastrano sulle spalle quando faceva freddo — sedeva su una vecchia poltrona davanti a una grande scrivania carica di carte, giornali, libri di ogni genere, e lí riprendeva fino alle due, alle tre del mattino il colloquio interrotto la notte innanzi coi suoi cesenati dell’Ottocento.
Allora quell’ampia sala, ricolma di scaffali, fredda, malinconica, tetra, rischiarata solo dal cerchio di luce della piccola lampada posta sullo scrittoio che illuminava soltanto il viso di Trovanelli si animava, si popolava delle ombre di Francesco Mami, di Leonida Montanari, di Pietro Caporali, di Eduardo Fabbri, della schiera di patrioti, piccoli e grandi, che egli aveva studiato, compreso e profondamente amato come figli della sua terra, di quella terra dalla quale solo la morte l’avrebbe distaccato.
SERGIO CAMERANI, Studi Romagnoli – XVI° volume “ Nazzareno Trovanelli nel cinquantenario della morte” , pp. 355-363. Cesena, 1965
Fotografie Fondo Casalboni – Biblioteca Malatestiana