Un breve estratto dal libro di Chiara Dall’Ara e Nerio Gridella “Quando si andava a Piedi”
“Ero bimba nel quartiere in ristrutturazione della Valdoca. Abitavo in Via Braschi, in una casa a due piani. Io e i miei genitori stavamo al secondo piano, naturalmente senza ascensore.
La scuola era a meno di 200 metri, il Carducci, frequentato sia per la materna che per le elementari. Era ovvio che ci andassi a piedi, accompagnata dalla mamma.
All’inizio degli anni Ottanta non ricordo che ci fossero dei gran supermercati a Cesena, forse il più grande era la Coop alle Vigne.
Noi andavamo alla Smar di Morganti, in Via Gaspare Finali. Io e la mamma, a piedi. Mezzo chilometro di distanza, dieci minuti, il ritorno con le borse pesanti, ma neanche tanto, visto che all’epoca l’acqua si beveva ancora dal rubinetto o tutt’al più si andava a prenderla una volta alla settimana alla fonte di Via Matalardo o a Ceravola, vicino a Montecodruzzo.
Mio babbo aveva due taniche di plastica da 5 litri; alle fonti si arrivava in auto e si faceva la fila ai rubinetti. Dicevano che erano acque pure, anche se ora, ripensandoci, non ne ho proprio la certezza. Ma del resto, non siamo mai stati male, non abbiamo mai avuto nessuna intossicazione o “disastri” intestinali dopo averla bevuta.
Per la frutta e la verdura, la mamma si fermava da Lucio, alla Barriera. Se mancava qualcosa all’ultimo momento, facevo una corsa dal lattaio, Baldazzi, in Corso Sozzi, oppure da Alvaro in Via Manfredi, o anche dalla Irma in Via Uberti. Questi piccoli negozi tenevano di tutto, dagli alimentari ai detersivi, ai piccoli utensili casalinghi.
Il centro brulicava di piccole botteghe alimentari, drogherie e negozi che commerciavano ogni genere di mercanzia.
Ricordo Tappi, in Via Fantaguzzi. Ci si comprava i detersivi, i profumi, i trucchi. Poi c’era una latteria in Via Strinati, un locale lungo e stretto che se c’era un po’ di fila si stava tutti accalcati; la Pescheria Vecchia di cui ho solo il vago ricordo della puzza di pesce, infatti non volevo mai metterci piede, soprattutto quando mio babbo vi andava per comprare il suo pesce preferito, il baccalà.
Come non dimenticare gli ambulanti del Foro Annonario.
Quelli hanno resistito fino al 2011, quando sono stati sfrattati per la ristrutturazione del Mercato Coperto, ora diventato uno pseudo centro commerciale, il Centro Annonario, come lo chiamo io.
Tra le botteghe, si distinguevano i negozi così detti di lusso o quelli affrontabili per le grandi occasioni; le inavvicinabili (anche ora che ho uno stipendio) boutique e i negozi di abbigliamento, profumerie, scarpe, corredi, stoviglie, librerie, giocattoli, caramelle, bar, pasticcerie, cinema, tabaccherie, edicole, gelaterie, farmacie, mercerie, artigiani che riparavano il possibile e immaginabile e il leggendario grande magazzino dove tutti i bimbi miei coetanei degli anni Settanta (ma poi ho saputo, anche quelli di un decennio prima), amavano perdersi e giocare, nella più totale disperazione delle mamme e delle indulgenti commesse: l’Upim di Corso Sozzi. Anche se rappresentava già l’iniziazione al commercio sfrenato, l’Upim è stato un posto di aggregazione, la prima ludoteca di Cesena, dove io scorrazzavo mentre mia mamma sognava i vestiti alla moda e quasi alla portata delle sue tasche di domestica a ore. Dove mi rifornivo per la scuola: diari, quaderni, penne; dove scatenavo la mia fantasia con gli addobbi natalizi, le carte da lettere, i fogli di cartone per creare ornamenti e oggetti artistici. L’Upim, un posto dove si cominciava a desiderare le cose da usare, da sfoggiare, da indossare per apparire più che per essere.
In quegli anni, almeno per quanto riguarda la mia famiglia, comprare vestiti, scarpe e altri accessori di abbigliamento non era una consuetudine. Era l’evento che capitava un paio di volte all’anno, per il cambio stagionale, per una festa speciale. Si sfruttavano i vestiti e le scarpe fino al logoramento, ce li si passava fra amici e parenti più grandi. Eravamo vicini alla povertà, quella povertà però che ora ripensandoci, è un valore, che stringe il cuore fino alle lacrime perché c’era unione fra le persone, solidarietà, amicizia. Almeno a me sembrava così. Non mi consideravo una bambina sfortunata se a volte mi mettevano i vestiti usati da qualche altra bambina più grande di me. C’era meno, anche in termini di offerta, ci si accontentava. La nostra vita da proletari scorreva comunque serenamente, erano più importanti i beni che riuscivamo ad ottenere invece di quelli a cui dovevamo rinunciare per mancanza di fondi.
Per i vestiti andavamo dalla Giuliana in Via Albertini e poi, negli anni Novanta, alla Pop 84 della Marina, alla Barriera. I nostri negozi erano questi, con cose di qualità che duravano nel tempo, capi che ancora oggi ho nell’armadio e che non hanno stagione, sono classici ma eleganti, confortevoli e resistenti. L’unico loro difetto – che poi difetto non è – è che non possono adattarsi alle variazioni di peso che si sono susseguite dopo l’adolescenza. Qualcuno, ancora mi va, altri no e li ho regalati o dati in beneficenza oppure li ho portati al baratto.”
Chiara Dall’Ara
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