di Luigi Di Placido
Nel 1980 avevo 14 anni. Frequentavo il Liceo Classico, ancora collocato all’interno dell’edificio che ospita la Biblioteca Malatestiana, in quella che era la sua “casa” dall’Unità d’Italia.
La statua di Maurizio Bufalini, collocata nel piazzale antistante, ha visto nascere e finire amori, ripassare lezioni all’ultimo minuto, scambiarsi confidenze, condividere risate e spensieratezza.
Ci conoscevamo tutti, al Liceo: diversamente da oggi, le sezioni erano solitamente due (tre nei momenti di massimo splendore), e questo comportava che fossimo un’unica grande classe, seppure con professori diversi.
È rimasta nella storia l’accoglienza che riservammo nel 1985, noi diplomati qualche mese prima, a chi iniziava l’anno scolastico: sdrai, ombrelloni, e “L’estate sta finendo” dei Righeira a tutto volume.
Forse, inconsciamente, ci dispiaceva aver finito quel periodo ricco di scoperte e momenti indimenticabili che, in realtà, non è mai finito, se ancora oggi con alcuni dei miei compagni di classe ci si frequenta con una certa regolarità.
Abitavo alle “Fornaci”, dietro San Bartolo, e ho già avuto modo di raccontare nella precedente pubblicazione l’epopea del “campino”; ogni mattina di scuola il percorso Via Mulini-Via Chiaramonti-Via Sacchi-Via Pasolini-Via Montalti mi conduceva verso qualche versione di greco o latino.
Credo che il Liceo Classico, posizionato in maniera così centrale, fosse l’emblema di quel cuore pulsante che era il centro storico di allora.
In centro la mattina per la scuola, in centro il pomeriggio/sera per tutto il resto.
Certo, il territorio cesenate è sempre stato caratterizzato da una forte presenza di frazioni e borghi, ognuno con una propria vita e una propria vitalità; ma il centro storico era il collante di tutto ciò, era il punto di congiunzione della città.
Era lo spazio che bisognava vivere e frequentare per sentirsi parte di una comunità.
Oggi non è più così, e sarebbe lungo affrontare i motivi della metamorfosi che ha fatto perdere buona parte di queste caratteristiche.
Qui, e adesso, dobbiamo parlare degli anni d’oro, di quei magnifici anni ’80.
Molti dei miei ricordi di ragazzo sono legati al Centro, non solo per la frequentazione scolastica, ma anche per la consapevolezza che avevano i ragazzi di quell’epoca: la “vasca” era un codice genetico al quale era impossibile rinunciare.
Si doveva incontrare la compagnia? In centro.
Si doveva fare un acquisto? In centro.
Si doveva ricercare l’anima gemella? In centro
Si doveva sfoggiare qualcosa? In centro.
Sono tanto esemplificative quanto fonte di nostalgia le fotografie che immortalano una infinita distesa di motorini in Piazza Fabbri, il cui “angolino” era luogo prefissato di ritrovo, e la cui occupazione era spesso contesa tra vari gruppi.
Era un angolo (quello che dai portici si affacciava verso la Biblioteca, in corrispondenza della cabina telefonica, da anni rimossa), ma a noi sembrava il mondo.
I “motorini” di allora erano tutt’altra cosa rispetto agli scooter odierni: molto più spartani, opportunamente truccati per migliorare le prestazioni, non propriamente un esempio di comodità.
Il College era il modello più “fighetto”, che assegnava status; il Ciao era quello nazional-popolare, vero simbolo di quegli anni; il Peugeot 105 era quello più alternativo, spesso abbinato nell’immaginario collettivo alla popolazione leggermente più incline al “birrismo”, con rielaborazioni dei manubri che sfidavano le leggi della postura, obbligando a posizioni che farebbero impallidire le tendenze odierne del risveglio muscolare: braccia praticamente congiunte, piedi sul cannone centrale e sella allungata, con coefficienti di penetrazione dell’aria degni del professionismo motociclistico.
Completavano la distesa il Piaggio Sì, la Vespa px, il Malaguti Fifty, il Garelli, il Califfo.
Menzione speciale per il mio amico Marcello, forse unico a cavalcare a Cesena il mitico Squirrel.
Io non ho avuto il motorino, il patto con i miei genitori era stato: motorino o macchina dopo la maturità. Il miraggio della macchina valeva assolutamente qualche anno di passaggi a scrocco e viaggi in bicicletta.
Dopo il ritrovo “all’angolino”, e relativi convenevoli, si partiva per l’immancabile cerimonia laica: la “vasca”.
Noi, ragazzi a quei tempi, abbiamo totalizzato qualche migliaio di kilometri lungo il percorso standard (via Mazzini, Corso Sozzi, via Zefferino Re).
Era la versione cesenate dello struscio, era quel rito al quale non era possibile rinunciare, quasi che qualcuno si accorgesse che si era rinunciato all’irrinunciabile.
La vasca era una categoria dello spirito.
Quelle vie erano un brulicare di persone, di negozi, di luci, che ci sembravano nuovi e diversi ogni giorno.
Ricordo i negozi di abbigliamento, di scarpe, da bambino, di dolciumi, i cui nomi sono impressi nella mia memoria, come una mappa indelebile.
Chi non è entrato all’Upim, fascinoso precursore degli attuali supermercati?
Chi non ha comprato un gioco all’Arlecchino?
Chi non ha comprato figurine all’edicola di Franco, alla Barriera?
E poi i bar, che segnavano il ritrovo pomeridiano e serale: il bar Centrale, il bar Nazionale, il bar Roma, la Tazza d’Oro, il bar Carducci, il caffè Reporter in Piazza del Popolo, solo per citarne alcuni.
Ogni compagnia aveva il suo bar prediletto, che spesso si affiancava a quello frequentato nella propria zona di residenza (per me era il mitico Bar Primavera).
Non c’erano tante gelaterie come oggi, ma il buon gelato non mancava: ricordo il Bar Africo, leggermente decentrato ma molto rinomato.
E poi i ristoranti (attività da me sempre decisamente apprezzate).
Negli anni ’80 era possibile mangiare fino a notte inoltrata, non so se in ossequio alla spensieratezza (talvolta eccessiva) che caratterizzava quegli anni, o per una minore frenesia della vita che permetteva di tirare tardi più facilmente.
Fatto sta che il Mulino (il mio preferito), Benito, I Tre Papi (nella loro collocazione a fianco della Biblioteca),la Conca Verde, il Lampione, la Pizzeria Ponte Vecchio (ancora oggi presente con il suo ormai mitico panino-pizza), Pino, le due pizzerie al taglio alla Barriera erano nomi che uscivano dalla nostra bocca quasi quotidianamente.
Per spuntini di mezzanotte particolarmente sostanziosi, talvolta si usciva anche dai confini cesenati, allungandosi fino a Savignano, da Ettore: oltre al buon mangiare a prezzi modici, ricordo una cameriera famosa per la capacità di palleggiare con agrumi come fossero un pallone da calcio.
Ricordo con nostalgia gli spaghetti all’americana del Preppy, piacevole locale lungo via Chiaramonti.
Nonostante la riviera fosse vicina, e molti imprenditori cesenati fossero lì protagonisti di attività legate alla notte, a Cesena ci sono sempre state occasioni per ballare.
Il Vidia nasce nel 1984, e ancora oggi diffonde musica e concerti, in ossequio a quella vocazione rock che lo ha sempre contraddistinto, e che ha innervato intere generazioni di giovani cesenati.
Gli anni passati in quella consolle a selezionare musica sono uno dei miei ricordi più belli; ancora oggi, i miei amici ogni tanto non perdono occasione per sottolineare, con forti dosi di ironia, la talvolta eccessiva originalità dei miei abbigliamenti da dj.
Per chi, invece, preferiva più la musica dance, il Pit-a-Pat (in zona ippodromo) ha segnato stagioni di grande divertimento.
C’erano anche le immancabili feste in casa di amici, con organizzazioni fatte di ciclostili e passaparola (altro che whatsapp e eventi su facebook).
Luci stroboscopiche improbabili, giradischi e mangianastri.
Verso la fine degli anni ’80 nacque anche una festa di capodanno che riscosse molto successo per tanti anni, e della quale fui tra gli ideatori: il Carisparty, che aveva luogo al Carisport.
Per gli amanti della musica come me c’erano Francolini, Bettini (forse non tutti lo ricordano, ma c’era una fornita selezione di vinile), la Discoteca del Savio e, per gli addetti ai lavori, Dee Jay Mix (altra fonte di ricordi indelebili per me, prima da cliente e poi da socio insieme a Mara, Leo e Antonio).
I concerti non mancavano: sono passati alla storia quello dei Rockets alla Settimana Cesenate (difficile immaginare, per i più giovani, viale Carducci chiusa al traffico e sede di una fiera che attirava migliaia e migliaia di persone), con le leggende metropolitane che raccontavano di laser di scena che avevano perforato le cornee di alcuni spettatori; Vasco Rossi degli esordi ad una festa della Voce Repubblicana alla stazione (scelto nonostante ci fosse chi suggeriva Toto Cutugno, fresco vincitore del Festival di Sanremo); Joe Cocker allo stadio (con concerto interrotto causa precarie condizioni fisiche della rockstar).
E i cinema. Quanti cinema c’erano.
Verdi, Eliseo, Italia, Novo, Astra.
E i cinema parrocchiali, come quello di San Bartolo.
E le arene estive, tra le poche occasioni di svago serale nella città che si svuotava.
Anche a Cesena le mode giovanili di quel periodo attecchirono, seppure con alterne fortune.
I “paninari” con Moncler e Timberland (talvolta non originali e quindi ribattezzate “Finterlnad”) occupavano precisi spazi del centro storico, mentre i metallari e rockettari preferivano la periferia, con incursioni di sfida nel salotto buono della città.
Madonna delle rose era il quartier generale dei Mods, senza il cui permesso non era consigliabile frequentare.
La passione per il calcio era una costante che attraversava ogni età e ogni strato sociale.
Il Cesena oscillava tra serie A e serie B, sempre con il medesimo seguito fatto di entusiasmo e partecipazione.
Lo stadio era ancora “La Fiorita”, fatto di tubi innocenti la cui tenuta veniva messa a dura prova dal caloroso tifo romagnolo.
La numerazione dei posti era teorica, al punto che per le partite di cartello si arrivava molte ore prima dell’inizio garantirsi un posto, a prescindere dalle condizioni atmosferiche.
Ricordo un Cesena-Catania con la neve; un rocambolesco Cesena Fiorentina 3-3 con scontri tra tifoserie; un perfetto sconosciuto di nome Holmqvist castigare la mia seconda squadra del cuore, il Milan. (E potrei andare avanti per ore, essendo più di 40 anni che frequento lo stadio).
Mi rimbombano ancora negli orecchi i cori che conoscevo a memoria, da frequentatore della curva, e ho ancora davanti agli occhi i venditori di ristori vari, con le loro cassette legate al collo.
E poi l’antistadio, sede di allenamenti e di partite.
Eccoli, i miei magnifici anni ’80.
Magnifici anche perché vissuti nell’età delle speranze, dell’entusiasmo, della spensieratezza.
Ogni tanto, passeggiando per le vie della mia città, i ricordi si sovrappongono all’attualità, quasi come se una mappa un pò sdrucita e ingiallita si appoggiasse su quello che vedo, marcando le differenze con il passato.
E scorgo quante cose sono cambiate, in quarant’anni.
Non potrebbe essere diversamente.
È facile dire che “una volta era meglio”, ma il rischio è che sia la nostra nostalgia a parlare, e che si mitizzi un periodo o alcune situazioni, ricordando il bello e dimenticando il brutto.
Correrò questo rischio, affermando che, a buon titolo, posso dire di avere vissuto quei magnifici anni ’80.
Descrizione per me perfetta💯🌺
Bravo Luigi
Chi e l’autore dell’articolo?
Luigi Di Placido