Ancora una volta, buona domenica care amiche e cari amici! Continuando il percorso di conoscenza di Renato Serra, lo scrittore più importante vissuto a Cesena, Vi propongo oggi la sua opera più significativa:
Il 23 luglio 1914, dopo l’attentato di Sarajevo, l’Austria dichiara guerra alla Serbia e, in pochi giorni il conflitto coinvolge le maggiori potenze europee e, successivamente, mondiali, assumendo i caratteri di quell’immane carneficina che fu la Grande Guerra.
L’Italia nel primo anno si mantiene neutrale ma la guerra incombe sugli animi degli Italiani, dilaniati tra neutralismo e interventismo.
Anche per Serra inizia un periodo di profondo turbamento.
In settembre, scrivendo all‘amico De Robertis, dichiara che le sue giornate “non sono altro che inquietudine assai sterile, nervosamente affaccendata a non far nulla; a leggere i giornali, a aspettar novità, a far delle chiacchiere che suonano a me stesso, intanto che le faccio, così vane! Così consumo i miei giorni (…) D’altronde lavorare non è possibile (…).“
Una lettera ad Alfredo Panzini del 27 novembre 1914 conferma il travaglio della sua anima: “Io mi chiudo e smarrisco nel sordo buio dell’anima, che forse poi è vano e nulla come questo infinito spazio di fuori, che giace in una chiarezza pungente di cristallo sopra la terra disseccata dall’inverno. “
Avviene una svolta nella sua vita e in lui emerge con sempre maggiore forza l’esigenza di andare oltre un’esistenza fino ad allora dispersa in tanti interessi contradditori ed egocentrici.
Si fa strada il senso di responsabilità di fronte al dovere comune, la volontà di condividere la tragedia che sta per coinvolgere tanti Italiani, di uscire dall’apatica indifferenza, dal comodo rifugio della sua casa, della Malatestiana, della città di provincia.
Il 14 gennaio 1915, nel Teatro “Bonci”, è accanto a Cesare Battisti che tiene una conferenza interventista per la sezione cesenate della “Dante Alighieri” di cui Serra è vicepresidente (una lapide sulla facciata del Teatro ricorda l’evento).
La conferenza viene interrotta dagli schiamazzi di socialisti e anarchici contrari al conflitto.
Tre giorni dopo sul settimanale “Il cittadino” compare un articolo attribuibile a Serra in cui viene espressa una netta posizione a favore dell’intervento.
In quei giorni, a trent’anni appena compiuti, l’animo di Serra si sta aprendo a nuove prospettive di vita, al bisogno di trovare diverse e più alte motivazioni all’esistenza.
In una lettera a De Robertis dell’aprile 1915, scrive: “Certo quella che è stata finora la ragione suprema della mia vita, il non averne nessuna e la gioia di non averne; la soddisfazione leggera delle cose sciupate e dei minuti perduti; tutto, ingegno e amore e vita consumato nel vuoto per la mia dolcezza sola non mi basta più…“
Diventa sempre più forte il senso di responsabilità di fronte al dovere, il bisogno di condividere la tragedia comune, di trovare una nuova, più seria e responsabile, dimensione esistenziale.
Parallelamente matura il suo scritto principale, quell’“Esame di coscienza di un letterato“ che esce sulla rivista “La Voce“ nel numero del 30 aprile 1915, uno dei testi più importanti della letteratura europea del primo ‘900.
Il saggio parte dal rapporto tra guerra e letteratura (“La guerra non cambia nulla, non cambia la letteratura e sostanzialmente cambierà poco o nulla della vita degli uomini su questa terra.“) poi diventa testimonianza di un’evoluzione interiore che, da una crisi esistenziale (“Davanti a me non c’è altro che la mia ombra immobile come una caricatura“), approda ad una rinascita fatta di condivisione con gli altri, con i “fratelli” e di assunzione di responsabilità di fronte alla tragedia collettiva, abbandonando incertezze e comodità.
Serra si schiera a favore della partecipazione alla guerra non per ragioni militari o politiche (la sua pistola non sparerà neppure un colpo) ma perché ritiene un dovere affrontare quell’esperienza di uomo tra gli altri uomini, perché arriva alla conclusione che la guerra è l’occasione per affrontare con dignità e coraggio il proprio destino per tornare, poi, a fare letteratura, forse diversa dalla precedente.
Il testo dell’ “Esame “documenta un percorso lungo il quale i pensieri di Serra mutano, si evolvono, arrivano a conclusioni nuove.
Un cammino interiore che ha la sua suggestiva proiezione nella passeggiata che dalla piazza principale di Cesena lo porta su, verso Porta Montanara, con lo sguardo al cielo, un itinerario dal basso verso l’alto, dal chiuso della piazza verso l’infinito: “Sono libero e vuoto, alla fine. Un passo dopo l’altro su per la rampata di ciottoli vecchi e lisci con un muro alla fine e una porta aperta sul cielo e di là dal mondo. A ogni passo la corona del pino, che pareva stampata come un’incisione fredda lassù su una pagina d’aria grigia, si sposta, si addensa, affonda i suoi aghi di un verde fosco e fresco in un cielo più vasto, che scioglie tanti stracci di nuvole erranti in una grande trasparenza scolorata. C’è una punta d’oro in quegli aghi che si tuffano nell’aria così vuota, così nuova. Anch’io son vuoto e nuovo.“
La “rampata di ciottoli vecchi“ è il cammino che conduce verso “un cielo più vasto“, verso orizzonti più limpidi e la Porta Montanara (la porta verso i colli, accanto ai ruderi della Rocca antica, tra cui gli “occhi della civetta“) diventa metafora di una nuova e diversa dimensione dell’esistenza.
Una dimensione di condivisione con altri uomini: “Andare insieme, uno dopo l’altro, per i sentieri fra i monti che odorano di ginestre e di menta; si sfila come formiche per la parete, e si sporge la testa alla fine di là dal crinale, cauti, nel silenzio della mattina. O la sera per le grandi strade soffici, che la pesta dei piedi è innumerevole e sorda nel buio, e sopra c’è un filo di luna verdina lassù tra le piccole bianche vergini stelle d’aprile; e quando ci si ferma, si sente sul collo il soffio caldo della colonna che serra sotto, o le notti, di un sonno sepolto nella profondità del nero cielo agghiacciato; e poi si sente tra il sonno il pianto fosco dell’alba, sottile come l’incrinatura di un cristallo; e su, che il giorno è già pallido. Così, marciare e fermarsi, riposare e sorgere, faticare e tacere, insieme; file e file di uomini che seguono la stessa traccia, che calcano la stessa terra…“
“Insieme“ è la parola che più volte ricorre.
Il Serra appartato, individualista, chiuso nel suo bozzolo di affetti domestici, di letture solitarie e pochi amici, di avventure effimere, di irresolutezza anche di fronte alla passione (Fides) oramai non esiste più.
E‘ nato un Serra “nuovo”, che non teme e non spera nulla e vive l’ora presente e affronta con spirito determinato, come non mai nella precedente vita, la grandiosa e tragica esperienza della guerra.
E il termine “vuoto” è, probabilmente, un’indicazione di come Serra si senta ormai libero dalle esperienze precedenti, dalle tentazioni che l’attiravano, dalle debolezze e inquietudini.
In effetti la partecipazione alla guerra segnò uno sviluppo nella vita di Serra, una svolta nella maturazione umana e morale, una sorta di “purificazione” dalle debolezze della vita precedente (gioco d’azzardo, discutibili relazioni con donne) e, da una testimonianza di Cino Pedrelli, ricaviamo che Serra si preparò alla guerra come fosse un’uscita dalla dimensione di vita fino ad allora vissuta, anche perchè capiva che le probabilità di morire in quella carneficina erano alte: “Volle andare al fronte in pace con tutti e troncò ogni relazione, quasi anche ogni corrispondenza con donne. In realtà io credo che Serra, con l’approssimarsi della guerra, fosse venuto sgombrando il suo spirito di ogni cosa piccola, frivola, impura. E questo lo dice lui stesso in alcune lettere… del resto sappiamo che l’ultima sua lettura, quella che era diventata la compagnia assidua degli ultimi momenti, era Platone“ (Più precisamente il “Fedone“ in cui Platone parla dell’immortalità dell’anima e racconta la nobile morte di Socrate). emanazione di donna libera e autonoma, sensibile e appassionata.